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Perché l'Uomo non perderà contro le macchine

26 agosto 2022

Perché l'Uomo non perderà contro le macchine

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Da quando la competizione uomo-macchina è cominciata nell’800 il fronte si è spostato sempre più in là. All’inizio erano in gioco i muscoli, poi con il concetto di informazione la macchina acquisisce uno scopo e nel 1983 il computer viene eletto addirittura persona dell’anno dal Time. Oggi le straordinarie capacità di calcolo delle AI mettono in gioco l’Uomo stesso. Eppure, secondo lo psicanalista franco-argentino Miguel Benasayag non vedremo mai realizzarsi le paure rappresentate in film come Matrix o Terminator.

L’autore di “La tirannia dell’algoritmo”, edito da Vita e Pensiero, è intervenuto durante l’edizione 2022 del Meeting di Rimini nell’incontro “La macchinizzazione dell’Uomo e l’umanizzazione della Macchina”. Dialogando con Paolo Benanti, Docente alla Pontificia Università Gregoriana di Roma ed esperto di bioetica, Benasayag ha più volte ribadito che la paura per le macchine è tanto antica quanto immotivata: «Se esse prevalgono il motivo è che noi non sappiamo cosa fare con loro, non sono loro a volerci schiacciare. La macchina non desidera nulla; tutti pensano che la differenza tra noi e loro sia quantitativa e invece è qualitativa».

La sfida deve spostarsi nel campo dell’umano: occorre non più domandarsi dove sono in grado di arrivare le macchine ma trovare la singolarità del vivente: «Siamo talmente affascinati dalle potenzialità della tecnologia da non vedere più la nostra unicità. Ecco perché occorre guardare il presente e il futuro non usando specchietti retrovisori per lamentarci dei bei tempi passati: dobbiamo chiederci come il vivente potrà condividere il mondo con la potenza immensa del digitale».

Il rapporto con la tecnologia non lascia indifferente l’uomo, che spesso rischia di cercare di assomigliare a una macchina. Anche dal punto di vista neuronale: «La questione è che il vivente esiste, la macchina invece funziona o no. Noi cerchiamo il senso, con i nostri dilemmi etici e politici e questo per le macchine è impossibile. Per noi il fallimento è rapporto con l’esistenza mentre una macchina non lo contempla: o funziona o non funziona». Benanti ha ribaltato la questione: «All’inizio del secolo scorso diversi pensatori vedevano nella tecnologia un segno della debolezza dell’uomo, inferiore per velocità o forza a molti animali. Ma noi rispetto alla nostra biologia siamo definiti da un’eccedenza: per scrivere il nostro pensiero abbiamo bisogno di carta e penna. La tecnologia ci aiuta a sostenere questa eccedenza».

Proprio il linguaggio distingue l’umano dagli altri esseri viventi. Una delle domande sempre più frequenti riguarda la capacità delle macchine di riprodurlo e addirittura di esserne coscienti. Per Benasayag c’è un equivoco di fondo: «L’informazione che sta alla base delle macchine non c’entra nulla con il linguaggio, che è una produzione di senso. Avere coscienza significa sapersi autorappresentare e la macchina non lo sa fare. L’unico rischio è una nostra perdita di forza e di capacità di immaginazione delegando sempre più funzioni alla macchina».

Un esempio arriva da un recente esperimento condotto dallo psicanalista: «Abbiamo comparato due gruppi di tassisti, uno situato a Londra e l’altro a Parigi. I primi per un dato periodo di tempo non hanno usato il navigatore, i colleghi francesi sì. Alla fine, dopo tre anni, i tassisti parigini avevano i nodi sottocorticali del cervello che notificano spazio e tempo atrofizzati». Il punto non è però diventare tecnofobici, come ha concluso Benasayag: «Dobbiamo chiederci come usare la macchina senza perderci, interrogarci su cosa sia l’umano davanti alla macchina».

Un articolo di

Michele Nardi

Michele Nardi

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