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Quando l’influencer tradisce la fiducia

06 giugno 2024

Quando l’influencer tradisce la fiducia

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Da una parte, ci sono i brand che vogliono far conoscere nuovi prodotti o servizi. Dall’altra, ci sono gli influencer ingaggiati per promuoverli tramite post, reel, story. In mezzo ci sono i follower la cui scelta di consumo è economicamente rilevante: sono loro a decretare il successo di un prodotto. Resta però una questione aperta su cui il cosiddetto “pandoro-gate” ha ulteriormente richiamato l’attenzione: i contenuti creati sulle piattaforme social sono veicolati in maniera trasparente? Ossia: gli hashtag #ad e #adv, identificativi di un accordo commerciale, sono utilizzati correttamente? A fare chiarezza su un tema quanto mai «scivoloso», vista anche la forte frammentazione legislativa, è stato il convegno accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Milano dal titolo “La figura dell’influencer tra vincoli normativi e quotidiano esercizio della professione”, promosso mercoledì 29 maggio dall’Associazione Mea che dal 1997 raccoglie le ex collegiali del Marianum e fa parte del network degli Alumni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Facciamo un passo indietro. Che cosa s’intende per influencer marketing? «È un endorsement di un prodotto o un servizio realizzato su Internet da parte di celebrities, influencers o utenti che hanno un seguito online o, comunque, una certa credibilità presso una determinata cerchia di (potenziali) consumatori», ha spiegato Miriam Loro Piana, Senior Associate, LCA Studio Legale, nel suo intervento introdotto dai saluti di Massimo Audisio, presidente della Commissione Diritti Umani dell’Ordine degli Avvocati di Milano, e di Rita Murgia, presidente Associazione MEA. «L’utente è portato a fidarsi dell’opinione dell’influencer, che percepisce come un pensiero personale», ha aggiunto l’avvocato Loro Piana. Ecco perché per evitare che il consumatore sia influenzato negativamente o indotto in errore la connessione esistente tra brand e influencer va resa manifesta.

Ed è qui che interviene la giurisprudenza. I primi interventi risalgono al 2016, quando l’Istituto Autodisciplina pubblicitaria (Iap) propone la Digital Chart, con l’introduzione degli hashtag pubblicità. Nel 2019 diventa regolamento vincolante, con l’aggiornamento dell’articolo 7 del Codice di autodisciplina, e dunque la sua conseguente applicazione alle comunicazioni pubblicitarie online. Negli anni più recenti a livello giurisprudenziale sono state diverse le decisioni prese dal giurì di Autodisciplina, dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) e da quella per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) riguardo a pratiche online scorrette di celebrities, influencer, youtuber fino ad arrivare alle linee guida dell’Agcom, arrivate qualche settimana dopo la ben nota vicenda che ha coinvolto Chiara Ferragni. «Il caso Balocco è stato solo una fortunata coincidenza poiché l’Autorità stava già lavorando alle regole che gli influencer devono seguire sulle piattaforme in caso di comunicazioni pubblicitarie. Ora, siamo in attesa di capire che cosa succederà in futuro», ha avvertito Loro Piana a conclusione della sua puntuale roadmap sullo stato attuale della situazione giuridica italiana.  

 

Un articolo di

Katia Biondi

Katia Biondi

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In realtà, se c’è un nodo da sciogliere a breve riguarda l’ampia frammentazione legislativa esistente. A mettere sul tappeto il tema è stato Ruben Razzante, docente di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica. «Ci sono tantissime autorità che a vario titolo rivendicano spazi, competenze e giurisdizione. Credo che si debba mettere mano a livello nazionale a questa disciplina per renderla unitaria, omogenea, generale, chiarendo in maniera più precisa le competenze e i confini di ciascuno». Secondo il professor Razzante non va poi sottovalutato il nodo relativo alla responsabilità delle piattaforme, che fino a pochi mesi fa hanno vissuto in una dimensione di «anomia», cioè mancanza di norme, una sorta di «enorme prateria nella quale hanno agito indisturbate, incamerando utili e stimolando business». È invece importante che le Big Tech collaborino per «disintossicare lo spazio virtuale da una serie di contenuti nocivi». Va in questa direzione il Digital services act, il regolamento europeo volto a garantire un ambiente online sicuro, in vigore dal 25 agosto 2023 per le grandi piattaforme e dal 17 febbraio 2024 per quelle piccole.

Fatto sta che quella dell’influencer è una professione esplosa velocemente. Un fenomeno a lungo sottovalutato, dove lo scetticismo nel considerarlo un vero e proprio mestiere ha finito per prevalere. Ne è convinto Jacopo Ierussi, presidente e fondatore Assoinfluencer, secondo cui il vero problema sta proprio nel non aver dato al settore la «giusta dignità» che sin dall’inizio meritava dal punto di vista giuridico. «Se lo avessimo fatto in tempo forse oggi non ci saremmo trovati di fronte a un “pandoro-gate” e sicuramente avremmo influencer e consumatori più informati», ha tenuto a precisare.

Già perché l’altro capitolo dell’intricata vicenda chiama in causa il consumatore. Da questo punto di vista, la normativa che lo tutela esiste ed è raccolta in una serie di articoli del Codice del consumo che contemplano le pratiche commerciali scorrette (artt. 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26). Nel concreto qual è la strada da seguire? «Se un utente incappa in una comunicazione di questo tipo, può fare una segnalazione sulla piattaforma di riferimento. Sia Instagram sia TikTok hanno questa possibilità, che è anche abbastanza agevole e intuitiva», ha osservato Simona Arena, responsabile dell’Ufficio Legale Associazione Consumatori, Codici Centro per i Diritti del Cittadino, attiva in Italia da oltre trent’anni. Si possono scegliere anche vie alternative, tra cui segnalazioni all’Associazione dei consumatori che possono intervenire in vario modo, cercando di avere una funzione preventiva. «La nostra Associazione lo scorso aprile ha pubblicato un comunicato stampa per segnalare l’utilizzo dei social network per veicolare messaggi trappola con l’idea di carpire i dati sensibili degli utenti, rubarne il profilo e utilizzarne i contatti per raggiungere il maggior numero di follower», ha detto Arena. Il consumatore può ricorrere a diffide, segnalazioni all’Agcm, all’Antitrust oppure procedere giudizialmente. «In caso di infrazioni del professionista, l’Antitrust prevede sanzioni che vanno dai 5mila fino a 10 milioni di euro, e la cui quantificazione dipende dalla gravità e dalla durata della violazione. Laddove il professionista non ottemperi i provvedimenti di urgenza, quelli di inibitoria o di rimozione, sono previste ulteriori sanzioni, da 10mila a 10 milioni di euro. E nel caso di reiterata inottemperanza l’Antitrust può disporre la sospensione dell’attività di impresa per un periodo non superiore a 30 giorni».

 

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