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Quando la rete è complice di reato

04 febbraio 2020

Quando la rete è complice di reato

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L’evoluzione digitale ha offerto ai giovani nuove straordinarie opportunità di conoscenza, espressione e socializzazione. Tuttavia, ha altresì fatto insorgere nuovi rischi, fra cui quello di diventare, talvolta inconsapevolmente, autori o vittime di comportamenti offensivi o addirittura penalmente rilevanti.

Accanto a minacce del web, quali il grooming - adescamento di minorenni per compiere atti di pedopornografia - e le suicide challenge, come la nota Blue Whale challenge, che vedono il minore coinvolto come soggetto passivo, vi sono forme di “cyber-devianza minorile”, quali il cyberbullismo, disciplinato dalla legge 71/2017, in cui sia l’agente sia la vittima sono minori o comunque ragazzi in età scolare.

Vanno ricondotte al concetto di cyberbullismo tutte le azioni offensive ripetute e frequenti, tenute intenzionalmente da uno o più adolescenti nei confronti di un coetaneo o una coetanea avvalendosi delle nuove tecnologie digitali, ossia inviando messaggi o pubblicando post in rete (per lo più sui social network), solitamente per mezzo di smartphone e tablet. La maggior parte delle condotte riconducibili a tale fenomeno costituisce reato nel nostro ordinamento, sebbene, da una parte, i minori non sempre siano imputabili – sotto i quattordici anni non lo sono mai e sopra i quattordici anni spetta al Tribunale per i minorenni deciderlo – e sebbene l’attivazione di un processo penale a carico di un minore debba essere un’opzione assolutamente residuale. Fra le ipotesi criminose astrattamente configurabili, le più ricorrenti sono: la diffamazione, l’illecito trattamento di dati personali, la minaccia, lo stalking, la diffusione illecita di foto e video sessualmente espliciti (revenge porn), fino, nei casi più gravi, all’istigazione al suicidio (bullycide). A ciò si aggiungono diversi reati informatici che spesso il cyberbullo integra “incidentalmente” quali la sostituzione di persona, che ricorre ad esempio quando si agisce in rete usando l’account di qualcun altro, l’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, che ricorre quando si accede indebitamente a un dispositivo altrui protetto da password, o, ancora, il delitto di interferenze illecite nella vita privata, che si commette, ad esempio, quando si fotografa o si riprende un compagno in un luogo “intimo”, come i bagni della scuola o gli spogliatoi della palestra.

Diverse caratteristiche dell’attuale contesto social-mediatico contribuiscono alla genesi di tali condotte devianti. Anzitutto in rete si può agire usando pseudonimi o “account fake”, il che produce un effetto di disinibizione e deresponsabilizzazione che si può tradurre in comportamenti aggressivi che il giovane non terrebbe se si sentisse “identificabile”. Inoltre, il mancato contatto fisico e visivo che caratterizza le interazioni virtuali impedisce all’agente di cogliere eventuali segnali esteriori di disagio nella vittima riducendo così le possibilità di una moderazione o cessazione “empatica” del comportamento offensivo. Ancora, la facilità e la velocità con cui si agisce in rete stimolano un modus operandi fondato più sull’istinto e sull’emotività del momento che su un’attenta ponderazione circa il contenuto da pubblicare, condividere o apprezzare.  A ciò si aggiunge che il web è spesso percepito dai ragazzi come luogo ricreativo in cui le azioni hanno poca importanza, in cui il confine fra lecito e illecito tende a sbiadire e in cui i criteri di valutazione dei contenuti non sono la verità, l’opportunità e la conformità ai valori del vivere civile, ma i “like” che ricevono. In rete qualunque contenuto sensazionalistico, come lo sono i contenuti denigratori e minatori, può riscuotere grande successo in termini di apprezzamenti e condivisioni.

Il web, inoltre, amplifica la portata offensiva degli atti di cyberbullismo, sia per la sua diffusività - un post può rapidissimamente diventare virale, anche per effetto delle logiche di visibilità che governano i social - sia per la permanenza che attribuisce ai contenuti che vi sono immessi - quando si dice “Internet never forgets” si intende che anche qualora si rimuova un contenuto dalla sua sede virtuale originaria, non si avrà mai la certezza di averlo eliminato definitivamente, in quanto il destinatario, o chiunque sia venuto a contatto con esso, può averlo memorizzato o condiviso con terzi o in un altro ambiente della rete.

Con la pandemia, che ha costretto i ragazzi a casa, determinando una netta preponderanza della loro vita online rispetto alla loro vita offline, si è registrato un incremento della cyberdevianza minorile, come attesta il picco di segnalazioni ricevute da Fondazioni a ciò dedicate, come la Fondazione Carolina.

Quanto ai rimedi, la legge 71/2017 prevede la possibilità, per chi sia vittima di cyberbullismo, di inviare un’istanza di rimozione del contenuto offensivo al gestore della piattaforma digitale o, in seconda battuta, al Garante della privacy. È inoltre in corso una riflessione sul coinvolgimento degli Internet service provider nel contrasto dell’odio in rete.

Accanto a queste strategie di tutela ex post, tuttavia, per prevenire e contrastare il cyberbullismo e le altre forme di cyber-devianza minorile, occorre, anzitutto, una pervasiva attività di media literacy, ossia di educazione dei giovani a un uso cauto, consapevole ed eticamente corretto, prima ancora che giuridicamente conforme, dei nuovi media, che passa necessariamente dalla conoscenza delle loro potenzialità e dei rischi sottesi alla navigazione. A tale alfabetizzazione mediatica dovrebbero inoltre sempre accompagnarsi attività formative volte a favorire l’empatia e il rispetto dell’altro e delle sue vulnerabilità nella valorizzazione delle diversità.

Un articolo di

Marta Lamanuzzi

Marta Lamanuzzi

Assegnista di ricerca in Diritto penale all'Università Cattolica

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