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Ratzinger, una vita dedicata ad aggiornare la fede

31 dicembre 2022

Ratzinger, una vita dedicata ad aggiornare la fede

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Professore di “History of Political Thought” e “Russia – Europa orientale: Storia e Politiche” presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Pietro Luca Azzaro è uno dei più profondi conoscitori del pensiero di Benedetto XVI. Dal 2007 ne cura per la Libreria Editrice Vaticana l’opera omnia e dal 2015 fa parte del Schülerkreis, la cerchia degli allievi di Joseph Ratzinger presieduta da Stefan Horn. In questa intervista per “Secondo Tempo” il professor Azzaro chiarisce alcuni degli elementi fondamentali del profilo intellettuale e della missione apostolica del Pontefice Emerito.

Joseph Ratzinger e Benedetto XVI: la figura del teologo è inscindibile da quella del Papa. In che modo questo intreccio tra ricerca e magistero ha plasmato il suo Pontificato?

Quando agli inizi degli anni ’80 Giovanni Paolo II chiese a Joseph Ratzinger di raggiungerlo a Roma per fargli da braccio destro come “Custode della Fede”, lui  – che da non molto era stato nominato arcivescovo di Monaco e che sentiva profondamente il compito di pastore del suo gregge – non potendo rispondere con un no secco, gli disse che avrebbe accettato volentieri; ma che siccome era sua intenzione continuare a scrivere libri di teologia (vale a dire fare ricerca, cioè ad avanzare ipotesi sulla fede che poi avrebbero potuto rivelarsi giuste, ma anche essere smentite) credeva imprudente, per il bene della Chiesa, accettare proprio l’incarico di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il Papa gli rispose che ci avrebbe riflettuto. Poi, alla prima visita di Ratzinger a Roma, gli rispose che, sì, le due cose erano compatibili, che anche da prefetto avrebbe potuto scrivere libri di teologia; come del resto aveva fatto il cardinale Gabriel-Marie Garrone quand’era stato prefetto della Congregazione per l’Educazione cattolica. Ma, al di là del precedente, le ragioni della compatibilità erano più profonde: sin dai tempi del Concilio, dove si erano conosciuti, ambedue consideravano il compito essenziale della teologia quello, nel mutare dei tempi, di facilitare l’incontro con la fede e dunque di renderla comprensibile, viva, operante nel suo nocciolo: Cristo è la via, la verità la vita. Da questo punto di vista il magistero del vescovo, anche del vescovo di Roma, necessita senz’altro dell’aiuto della teologia, a patto però che i teologi non abbiano la pretesa, peraltro antiscientifica, di presentare immediatamente all’intera comunità cristiana le loro ipotesi come fossero il nuovo contenuto stesso della fede.

La vastità e l’articolazione dell’opera di Benedetto XVI non hanno precedenti nella storia del Pontificato: da traduttore e curatore dei suoi testi, come descriverebbe in sintesi lo sviluppo del suo pensiero?

C’è un episodio degli Atti degli Apostoli (16, 6-10) al quale Ratzinger dà grande importanza. Paolo è missionario nella sua patria, l’Asia Minore, e non vuole oltrepassare lo stretto che la separa dall’Europa. Ma ogni altra destinazione che non sia quella, per un motivo o per l’altro gli è misteriosamente preclusa; sino a quando, in sogno, gli appare un macedone, cioè un greco, che lo prega dicendo: «Vieni qui e aiutaci!». È, per Ratzinger, il grido di aiuto che “Atene”, che sta per ragione, rivolge alla fede, a “Gerusalemme”, per rimanere veramente ragionevole, veramente umana, per non trasformarsi in forza propulsiva di una immane cultura della morte; e, d’altronde, solo nell’incontro con la ragione la fede a sua volta riconosce i suoi limiti e la sua vera natura; non rischia di deragliare in fondamentalismo. Questa “sintesi europea” è stata una grande costante del pensiero di Joseph Ratzinger che gli ha permesso, nel corso dei decenni, da un lato di smascherare in modo assolutamente convincente tutte le apparenti certezze scientifiche contro la fede, e dall’altro di denunciare tutte le forme di abuso della religione fino all’apoteosi dell’odio.

Protagonista del Concilio Vaticano II, Benedetto XVI ne è stato poi l’interprete: che cosa ha veramente significato per la Chiesa la cosiddetta “ermeneutica della riforma nella continuità”?

Il termine che a riguardo il giovane Ratzinger, perito conciliare, mutua con convinzione ed entusiasmo da Giovanni XXIII è “aggiornamento”. Sin da giovane viceparroco, verso la fine degli anni ’50, si era reso conto che la fede che lo circondava diventava sempre più una fede “per abitudine” e che, per ciò stesso, prima o poi avrebbe esaurito la sua forza propulsiva: sarebbero rimaste tante persone munite del certificato di battesimo, ma non veri testimoni della fede. Così, già in quegli anni Ratzinger non aveva paura di parlare di “nuovo paganesimo” – per cui si era preso anche un rimprovero del suo vescovo. Rilevava in altri termini un distacco formalistico fra pratica religiosa privata e una reale convinzione che sapesse spiegare i motivi della propria fede, che sapesse dare ragione del fatto e del modo in cui, dalla fede, dipenda anche proprio il “centuplo quaggiù”, il soddisfacimento del desiderio di felicità qui e ora dell’uomo. Vivendo la parrocchia si accorgeva come “l’uomo di oggi” partecipava con piacere alla Messa di Natale, ma le parole che udiva in quei momenti – redenzione, peccato, salvezza – giungevano da un mondo che non sentiva più come il suo. Ora, quello il Concilio Vaticano II per lui si doveva proprre con “l’aggiornamento” o “l’attualizzazione” era esattamente rispondere alla sfida decisiva per cui appunto il cristianesimo era in ultima analisi percepito dagli uomini come qualcosa che non li riguardava, che non riguarda più la vita: «Servire questa vita sarà il compito del futuro Concilio, che, come concilio di rinnovamento, avrà non tanto il compito di formulare dottrine, quanto quello di rendere possibile nel mondo di oggi la testimonianza della vita cristiana in modo nuovo e più profondo, per dimostrare veramente che Cristo non è solo un “Cristo di ieri”, ma l’unico Cristo, “ieri, oggi e nei secoli” (Eb 13,8)»; così egli scriveva alla vigilia del Concilio. È questa, in estrema sintesi, l’ermeneutica della riforma nella continuità che i suoi scritti riflettono e che ambiva a favorire una nuova, grande stagione di “fede per conversione”, che poi con i nuovi movimenti ecclesiali effettivamente ci fu.

Il legame tra Benedetto XVI e il mondo accademico è sempre stato molto forte, anche per ragioni biografiche: quale è stata, e quanto è attuale, la sua visione di una Università Cattolica?

È più attuale che mai. In definitiva, per Ratzinger, il compito della Chiesa nell’ambito della società è prima di tutto quello dell’educazione, del risvegliare la sensibilità dell’uomo per la verità, il senso di Dio, e così l’autentica energia della coscienza morale, che è l’unico vero baluardo contro ogni disumanità e ogni abuso di potere. La Chiesa, e per essa proprio anche l’Università Cattolica, deve infondere ai giovani il coraggio di vivere secondo coscienza, oggi più che mai. Lo ha ricordato di recente Papa Francesco proprio sintetizzando molto bene uno dei punti centrali della teologia di Benedetto XVI: se Dio è divenuto uomo, allora l’uomo acquisisce una dignità̀ del tutto nuova. Se l’uomo invece è solo il prodotto di un’evoluzione casuale, allora la sua stessa umanità̀ è un caso e così a un certo punto sarà possibile sacrificare l’uomo per scopi apparentemente superiori. Ma se Dio ha creato e voluto ogni singolo uomo, le cose stanno in modo completamente diverso.

La rinuncia al ministero petrino non è stata un semplice atto di governo, ma una scelta fortemente connotata in senso teologico. Possiamo considerarla come un elemento dell’ecclesiologia (e della cristologia) di Benedetto XVI?

Certamente. Quando annunciò che il Signore lo chiamava “a salire sul monte” non voleva dire che sarebbe, per così dire, andato in pensione, ma che da quel momento in poi avrebbe fatto la cosa più importante, l’unica veramente essenziale: pregare, senza il quale, come una volta ha detto, tutto l’impegno dell’apostolato e della carità si riduce ad attivismo. Come del resto emerge bene dal suo Gesù di Nazaret, il centro dell’impegno pastorale di Gesù erano le sue notti di preghiera sul monte, solo con il Padre. Da una notte così è scaturita la chiamata degli apostoli. E poi la preghiera sacerdotale, la notte del Getsemani, il giorno del Calvario sul monte della Croce, dove esprime ancora una volta il più intimo compito del ministero sacerdotale: portare nella preghiera tutti gli uomini, tutte le loro preoccupazioni, i loro dolori, le loro sofferenze, le loro speranze e le loro gioie al cospetto del Dio vivente. Per questo non è un caso che abbiamo amato così, abbiamo sentito così vicino questo speciale “monaco orante per il popolo” proprio anche dall’apparente lontananza del suo ritiro sul “monte”, il Monastero Mater Ecclesiae.

Un articolo di

Alessandro Zaccuri

Alessandro Zaccuri

Direttore - Comunicazione Università Cattolica

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