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Riconciliarsi col nemico nella terra dell’umanità

04 novembre 2022

Riconciliarsi col nemico nella terra dell’umanità

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Non è facile per i giovani rompere il ghiaccio. Né per M.*, palestinese, il cui fratello è stato ucciso da un israeliano, né per F. e A., figli il primo di un appartenente a un gruppo armato “di sinistra”, la seconda di due affiliati a gruppi “della destra”. Non è stato facile neppure per la giovane ucraina Y., catapultata nel dramma di un conflitto che non le appartiene. Tantomeno per Robi, Laila, Sam e tutti gli altri, non più così giovani, giunti in Università Cattolica da Israele, Palestina, Irlanda del Nord, Inghil¬terra, Scozia, Paesi Baschi, Belgio, Germania e da diverse parti d’Italia. Eppure, vittime e responsabili sono seduti insieme, uno accanto all’altro, nelle aule di largo Gemelli e via Sant’Agnese a Milano, per raccontare e condividere la loro esperienza di dolore, di morte, di violenza, «agìta» e «subita» e superata.

Così, se nel cuore d’Europa c’è una guerra terribile che non accenna a fermarsi e in Iran montano le proteste dopo l’uccisione della ventiduenne Mahsa Amini, che non aveva indossato correttamente l’hijab, c’è ancora chi sente il bisogno di «testimoniare nei fatti, e non in modo teorico, una convivenza possibile» e di dire «che la morte e la violenza non hanno l’ultima parola».

È il messaggio forte dell’Incontro degli Incontri - The Encounter of the Encounters - che riunisce insieme persone di nazionalità diverse accomunate dall’esperienza di partecipazione a dialoghi riparativi dopo atti di violenza politica ed estremismo violento. Un gruppo informale che conta oggi circa settanta persone -  che si è incontrato, in un numero più ristretto, per la prima volta a San Sebastian nei Paesi Baschi nell’ottobre del 2019 - e che da mercoledì 28 settembre a sabato 1° ottobre, si è ritrovato per rendere partecipi, studenti, prima, cittadinanza, poi, del loro personale, faticosissimo percorso riparativo per affrontare il doloroso destino che li accomuna in due incontri dal titolo emblematico “Prove di futuro dopo la violenza” e “Disarmando il dolore”.

 

 

«Nel clima geopolitico attuale, vedere insieme, nella concordia e rispetto reciproco, persone investite dalla violenza ha offerto una sorta di boccata di ossigeno e donato una speranza tangibile e concreta», spiega Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale e Giustizia riparativa in Cattolica, tra i promotori dell’iniziativa e tra coloro che hanno fatto parte della Commissione incaricata di redigere lo schema di decreto legislativo sulla giustizia riparativa, approvato e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale anche se però al momento il nuovo Governo ne ha rimandato l’entrata in vigore. «L’aspetto interessante di questi dialoghi riparativi inediti è la trasversalità, con le storie diverse dei protagonisti provenienti da mondi differenti che si trovano attorno agli universali della violenza e della riconciliazione». Un incontro con il nemico, continua la professoressa Mazzucato, che è possibile soltanto nella «terra dell’umanità», l’unica terra dove è possibile trovare una «comunanza fra tante differenze».

 

 

 

 

Di umanità parla anche Gabrio Forti, direttore dell’Alta Scuola Federico Stella sulla giustizia penale (Asgp), che ha organizzato l’evento e finanziato la partecipazione dei testimoni. «L’esperienza degli incontri riparativi avvicina alla comprensione di che cosa è l’umano, che non è sostituibile». Ecco perché «attribuisco un significato denso alla differenza tra l’aggettivo ‘riparativa’ e l’aggettivo ‘riparatoria’», precisa il professor Forti. «L’attività riparatoria lavora solo all’esterno, quella riparativa opera dall’interno: ripararsi è modificarsi perché non si è più gli stessi di come si era prima di avviare un percorso riparativo». Per questo forse non è erroneo attribuire alla giustizia riparativa la dimensione di un’esperienza quasi «escatologica», come suggerisce Guido Merzoni, preside di Scienze politiche e sociali, ricordando come la sua facoltà sia stata una delle prime in Italia a istituire una cattedra dedicata a tale disciplina, cui ha fatto seguito un analogo corso impartito in inglese.

 

 

 

 

 

Volontarietà, partecipazione, confidenzialità: sono le parole-cardine che guidano l’incontro degli incontri dove quello che conta è il dialogo, pur non sempre facile. «La riconciliazione è un processo lungo», afferma Robi Damelin, madre di David ucciso da un cecchino palestinese, membro del Parents Circle – Families Forum, un’associazione di oltre seicento famiglie israeliane e palestinesi, le quali hanno perso un congiunto nel conflitto mediorientale e si adoperano insieme a favore della riconciliazione. «Il dolore di perdere un figlio è incredibile. Ma vivendo da vicino il dolore delle madri di Gaza, madri come me, ho capito che le mie lacrime e quelle di una madre palestinese sono identiche». Per Robi la via del perdono è stata complicata e piena di ostacoli. Ma quando ha ricevuto una lettera dal cecchino di suo figlio che l’accusava di essere folle e in cui spiegava le motivazioni del suo gesto, per lei è stato l’inizio della rinuncia a essere vittima. «Ero finalmente libera», commenta. «Lui aveva agito per vendicare uno zio che era stato ucciso dall’esercito israeliano». Invece, «per me il perdono ha significato abbandonare il mio diritto alla vendetta».

 

 

 

Superare il dolore non vuol dire, però, cancellare, dimenticare, giustificare. Lo spiega Agnese Moro che rivendica il diritto a non tacere sul passato. «Quando succede in una famiglia qualcosa di drammatico che si porta via qualcuno che si ama, invece di riuscire a proferire parole che possano spiegare ai giovani, ai bambini e a quelli che nella famiglia o nel vicinato sono colpiti da quell’evento, si diventa spesso muti», ammette la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978. «Ho tre figli, nati tutti dopo l’omicidio di mio padre. A nessuno di loro sono stata capace di spiegare quello che era successo alla nostra famiglia. Ho cercato di tacere il più possibile perché c’è un portato di orrore e di tragedia che non vuoi tocchi la generazione che viene dopo e le persone che non hanno dovuto subirla direttamente». Un silenzio che, pur sembrando protettivo, in realtà urla. «Dobbiamo trovare il modo per poter esprimere con le parole anche cose terribili senza che diventino fonte di ulteriori ferite per coloro che sono venuti dopo» e «per riuscire a cominciare a varcare questa frontiera del silenzio cercando le parole se non giuste almeno umane».

 

 

 

Lo sanno bene F. e A. che sin da piccoli hanno dovuto fare i conti con la “dittatura del passato”, legati come sono irrimediabilmente alle violenze che hanno segnato la vita dei propri genitori e, in forma diversa, anche le loro. «Sono stata molto amata e molto odiata», racconta A. «Questo perché non c’è stato dialogo e non si è parlato abbastanza di quello che è stato. Si è cercato di proteggere il futuro semplificando il passato. L’incontro degli incontri è l’unico progetto possibile per rimediare e per guardare al futuro perché di guerra ce n’è troppa e fa male a tutti. Siamo tutti figli di qualcuno, siamo tutti genitori di qualcuno e forse dovremmo capire che dall’altra parte più che il mostro c’è qualcuno con delle ragioni che vanno ascoltate e condivise».

 

 

 

Perché quello che conta è uscire dalla «logica della violenza» e riconciliarsi con il passato. Come ha fatto Franco Bonisoli, tra quelli che nel 1978 ha partecipato al sequestro di Aldo Moro. «Qualcuno ha definito scandaloso il nostro stare insieme», dice. «Per me essere capito dalla società è stato un passo importante. Il dialogo riparativo consente di rimettersi in gioco, ogni volta e di continuo. Per disarmare il dolore dobbiamo disarmare noi stessi». Un cammino irto e tortuoso, dove i pregiudizi non mancano. Ma anche l’unico possibile. Lo ripete con forza la basca Maixabel Lasa, che ha perso il marito sotto i colpi dell’Eta. È il solo modo per piantare «semi di pace» per un futuro di alberi dalle radici solide e dai rami rigogliosi che un giorno riempiranno la foresta dell’umanità.  

 


 

*  Per motivi di privacy i nomi di alcuni testimoni che hanno preso parte a “L’incontro degli incontri” sono stati indicati solo con le iniziali

Un articolo di

Katia Biondi

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