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Selfie: come vogliamo che il mondo ci veda

21 giugno 2023

Selfie: come vogliamo che il mondo ci veda

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Il 21 giugno si celebra la Giornata mondiale del selfie, tradizione che va avanti da quattro anni quando venne lanciato sui social il “SelfieDay”. Secondo alcuni fu la BBC a istituire questa giornata, anche se in realtà la BBC lanciò questo hashtag mesi prima per un’inchiesta sui selfie. Ma l’hashtag #SelfieDay divenne un trend topic, che designava la giornata dedicata all’autoscatto più famoso, nell’epoca dei social e degli smartphone.

Clelia Malighetti, docente della Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica, racconta che secondo l’Oxford Dictionary - che nel 2013 l’ha scelta come parola dell’anno - un selfie è “un autoscatto, tipicamente effettuato con uno smartphone o una webcam, condiviso sui social network”. Questa definizione spiega chiaramente come la nascita e la diffusione dei selfie sia strettamente collegata a quella di due tecnologie: gli smartphone e i social network.

E infatti l’anno che segna la diffusione dei selfie è il 2010, lo stesso che ha visto il lancio dell’iPhone 4 e la nascita di Instagram. L’iPhone 4 è il primo ad avere due fotocamere, di cui una frontale. Così diventa possibile realizzare autoscatti vedendone immediatamente sullo schermo il risultato. A capire per primi il potenziale di questa tecnologia sono i creatori di Instagram, che sviluppano l’app con l’obiettivo di migliorare gli scatti e gli autoscatti fatti con lo smartphone.

«Di fatto il selfie può essere paragonato a un proprio autoritratto, con cui condivide l’obiettivo, ovvero generare rispetto ed emulazione in chi lo guarda – osserva Clelia Malighetti -. Infatti, ciò che rende un autoritratto un selfie è proprio la volontà di condividerne il contenuto per generare una reazione nel soggetto che lo vedrà».

Se pensiamo ai social, le reazioni ai selfie sono diverse: i like, i commenti, o il “seguire” …

Negli anni il numero di “mi piace” ricevuti dai contenuti condivisi ha assunto importanti implicazioni sul piano sociale. Da una parte, il “mi piace” viene visto sempre più spesso come un segnale di approvazione personale. Per i giovani utenti, infatti, a essere valutato non è il post che hanno pubblicato, ma loro stessi, il proprio modo di essere. Dall’altra, numerosi studi hanno dimostrato l’influenza del numero di “mi piace”, e quindi delle opinioni espresse dagli altri, nel proprio modo di giudicare un’immagine. Gli utenti tendono a mettere “mi piace” più frequentemente alle immagini che già gli altri hanno reputato di valore, indipendentemente dalla natura delle immagini ritratte nelle foto.

Anche il numero di “follower” è diventato un metro di misura della propria importanza e po- polarità. Avere una cerchia di follower ampia significa essere apprezzati, sia in rete sia nel mondo reale. In caso contrario, è l’autostima a risentirne con conseguenze più o meno gravi.

Il selfie racchiude in sé, insita, una forma di ambivalenza: si tratta di rappresentazioni reali ma al tempo fittizie, che in un certo senso si discostano dalla realtà.  Il selfie è sempre quindi il risultato di un atto intenzionale e consapevole?

Dietro il selfie c’è molto spesso la ricerca di uno scatto preciso, il tentativo di trasmettere un’emozione particolare. Per cui, spesso, non rappresentano le emozioni e le situazioni reali di vita dell’adolescente, ma piuttosto quelle che vuole comunicare (in psicologia si parla di identità pubblica). E questo spiega l’abbondante uso di filtri e di effetti speciali, utilizzati per rendere i propri contenuti digitali più efficaci e coinvolgenti.

Inoltre, sono una rappresentazione di un aspetto specifico dell’identità della persona, di un momento particolare, magari irripetibile. La persona sceglie come essere, come presentarsi, quale parte di sé mostrare e filtrare. Per poter operare questa scelta, occorre che la persona si “veda da fuori”, per poter raccontare quel particolare occorre che la persona sia in grado “di auto-oggettivarsi” ovvero immaginarsi come un oggetto agli occhi dei suoi osservatori/follower. Nel processo di creazione di un selfie, la persona diventa quindi contemporaneamente osservatore ed osservato, oggetto e soggetto.

Il processo di scelta di quale parte di sé, o immagine presentare, sarà quella che inevitabilmente chiamerà maggior numero di like, di commenti o di follower, cioè quelle emozioni, quelle immagini di sé che sono efficaci dal punto di vista comunicativo.

Tutto questo a livello emotivo che cosa comporta?

Comporta che le emozioni che sperimenta, non sono più spontanee, ma sono quelle che servono per poter sembrare ai propri follower quello che vuole essere. Anzi, proprio per ottenere un “mi piace” in più, è possibile che si decida di ignorare una serie di emozioni poco efficaci dal punto di vista comunicativo, ma fondamentali per la gestione della propria vita quotidiana, come ansia, imbarazzo, noia, invidia, nostalgia e così via.

L’utente adolescente non impara a riconoscere e a controllare queste emozioni, portando nei casi più estremi ad analfabetismo emotivo. La mancanza di condivisione di queste emozioni porta la persona a pensare di essere il solo a sperimentarle, incominciando a sentirsi inadeguato. Per questo, come ha spiegato David Ginsberg, direttore della ricerca di Facebook, l’utilizzo passivo dei social media – cioè limitarsi a guardare le immagini e le storie degli altri senza crearne di propri – spinge l’adolescente a un continuo confronto sociale che alla lunga può farlo star male. In particolare, l’inadeguatezza induce depressione, ansia sociale e un senso di solitudine.

Il bisogno di farsi un selfie, che pare sempre più assillante e diffuso, può, secondo Lei, diventare qualcosa di patologico, una vera e propria sindrome?

Il selfie è un potentissimo strumento di espressione di sé, e come tale offre opportunità e rischi. Un recente studio ha indicato che le motivazioni principali che spingono a scattarsi un selfie sono sei:

  1. Fiducia in se stessi (ad esempio, scattare selfie per sentirsi più positivi nei confronti di se stessi)
  2. Valorizzazione dell'ambiente (ad esempio, scattare selfie in luoghi specifici per sentirsi bene e mostrarsi agli altri)
  3. Competizione sociale (ad es. scattare selfie per ottenere più "mi piace" sui social media)
  4. Ricerca di attenzione (ad esempio, scattare selfie per attirare l'attenzione degli altri)
  5. Modificazione dell'umore (ad esempio, scattare selfie per sentirsi meglio)
  6. Conformismo soggettivo (ad esempio, scattare selfie per adattarsi al proprio gruppo sociale e ai propri coetanei).

Le motivazioni che spingono a scattare selfie possono essere diverse, tuttavia in generale, il selfie consente all’ individuo di crearsi un'identità digitale su cui si opera una forma di controllo: permette di scegliere come essere visti dalla propria comunità sociale, permette di decidere quale parti di sé presentare, come celebrarsi, permette di fatto di crearsi una identità “digitale” per come si desidera essere visti dagli altri. L'aumento della popolarità dei selfie ci ha anche permesso di essere più connessi a livello personale. Prima dell'invenzione dei moderni smartphone, la condivisione di esperienze personali era limitata alle interazioni sociali fisiche o alle conversazioni individuali. Questa tendenza ha favorito un’apertura alla condivisione e alla comunicazione, per esempio ha permesso alle persone di celebrare i loro hobby, i loro interessi e gli aspetti che rendono gli individui ciò che sono.

Alcuni studiosi recentemente hanno parlato di un disturbo legato al selfie, chiamato “selfite”, distinguendolo in tre categorie: cronica, acuta e borderline..

La categorizzazione fa riferimento alla gravità della patologia, per cronica quando il bisogno incontrollabile di scattare le foto e postarle si presenta in modo costante, per più di 6 volte al giorno, borderline quando si scattano selfie almeno tre volte al giorno, ma senza necessariamente postare, e acuta quando si fanno molti selfie e poi vengono tutti pubblicati.

La possibilità illimitata di mostrarsi, rappresentarsi, auto-celebrarsi, porta con sé la possibilità di incontrare dei rischi o di esacerbare dei tratti di personalità, come per esempio quella narcisistica.

I selfie riguardano soprattutto una espressione di sé positiva, che può al suo estremo, essere letta come il rischioso prodotto di un’artificiosa ed esagerata costruzione di sé..

 In quest’ottica potrebbe rappresentare un problema per la forte enfasi data alla promozione di stili di vita perfetti, a un’immagine di sé allegra, attraente, rappresentando una possibile minaccia, sul piano psicologico, all’autostima, alla relazione con il proprio corpo e con gli altri.

Un articolo di

Graziana Gabbianelli

Graziana Gabbianelli

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