Dinanzi a un evento così catastrofico come il terremoto che ha sconvolto Turchia e Siria, davanti alle decine di migliaia di morti e dispersi, se vi era una domanda su cui non dovevano esservi dubbi nel rispondere era proprio il dilemma se togliere o meno le sanzioni al regime del dittatore siriano Bashar Assad per favorire i soccorsi. Si chiamano aiuti umanitari proprio perché hanno a che fare con la solidarietà umana, al di là delle ideologie e degli interessi geopolitici.
Gli Stati Uniti, dopo giorni di incertezze, hanno iniziato ad i primi allentamenti delle misure che puniscono Damasco e che sono state congeniate, al di là delle giustificazioni ufficiali, per impedire la ricostruzione della Siria dopo la vittoria militare sul campo di Assad e dei suoi protettori russi e iraniani. È giusto pensare e dire tutto il peggio sul crudele dittatore siriano, ma è altrettanto inevitabile sottolineare come le sanzioni imposte dall’Occidente in questi anni abbiano colpito duramente più una popolazione civile, già provata da un decennio di guerra civile, che l’élite al potere. E non forse sempre così con le sanzioni? Annunciate per punire i regimi colpevoli di crimini internazionali, finiscono inevitabilmente per infierire sulle popolazioni che vorremmo aiutare.
Una delle ragioni avanzate da chi esita a inviare aiuti ai siriani è che così si rafforza Assad e si alimenta l’enorme corruzione del suo regime. Una “profezia” fin troppo facile: in tutto il mondo si specula sulle tragedie e sulle emergenze; gli esempi sono innumerevoli e a tutti i livelli, dagli interventi delle missioni Onu ai recentissimi scandali delle speculazioni fatte da politici e militari ucraini sugli aiuti occidentali nella guerra.
Continua a leggere su Avvenire