Il terremoto che ha colpito Turchia e Siria nella notte tra domenica 5 febbraio e lunedì 6 febbraio ha provocato morte e devastazione. Decine di migliaia di persone hanno perso la vita e il numero sembra destinato a salire, così come quello di feriti, sfollati e dispersi. Con il professor Giorgio Del Zanna, docente di Storia contemporanea e di Cultura e civiltà della Turchia, abbiamo provato ad analizzare gli aspetti politici e sociali delle zone colpite.
Quali sono le caratteristiche della Turchia meridionale e della Siria settentrionale? Qual era la situazione prima del sisma?
«Sono due zone molto critiche, molto fragili, in particolare il Sud della Turchia è storicamente la zona più depressa dal punto di vista economico. Anche se negli ultimi anni ci sono stati grandi progetti, soprattutto progetti idrici per favorire lo sviluppo agricolo, ci sono regioni che hanno un tasso di sviluppo molto più basso. Bisogna poi considerare che sono, in parte, regioni dove c’è una forte presenza della popolazione curda: non a caso dalla zona dell’epicentro del primo terremoto provengono gran parte dei curdi. Il Nord della Siria è, invece, sostanzialmente sotto l’influenza turca, soprattutto la regione di Idlib. Un’area che sfugge al controllo diretto del governo di Damasco e quindi la rende anch’essa particolarmente in difficoltà perché è una zona dove lo Stato non c’è. Non bisogna poi dimenticare che queste sono zone segnate dalla guerra».
Il terremoto può contribuire a porre fine al conflitto?
«L’auspicio è che tutto questo accada, anche perché penso che il popolo siriano abbia già sofferto abbastanza e non merita di soffrire ulteriormente. Oggi il dossier siriano sicuramente è uscito un po’ dai radar della comunità internazionale, però questo drammatico evento sta riportando l’attenzione su quello che sta succedendo in Siria e su questa guerra che non è finita».
Nelle ultime ore in Turchia ci sono state contestazioni al presidente Erdogan che ha reagito bloccando momentaneamente alcuni social come Twitter. Cosa sta accadendo nel Paese? E cosa potrebbe accadere in seguito a questo terremoto?
«La situazione è drammatica. Noi non abbiamo la percezione di quanto sia vasta la distruzione e il numero di morti sarà molto più alto di quello che al momento si stima, anche perché il terremoto ha colpito città piuttosto popolose. In Turchia sta emergendo un malessere legato al fatto che lo sviluppo urbano, nonostante la consapevolezza che il Paese sia fortissimo, è stato condotto secondo criteri e logiche puramente economiche: tutto questo esaspera le persone. Inoltre, le infrastrutture sono state danneggiate in modo molto grave; quindi, è molto difficile raggiungere alcune zone della nazione, anche perché l’area colpita è vasta centinaia di chilometri. Tutto questo sta alimentando un malessere e un malcontento che in qualche modo potrebbero ritorcersi contro Erdogan, così come era avvenuto nel 1999. Tra l’altro, lo Stato non ha vigilato sulla qualità degli edifici, cosa che doveva fare, e questo pesa sulla leadership turca perché le responsabilità oggettivamente sono innegabili».
Tutto ciò potrebbe influire sulle elezioni politiche che si terranno tra qualche mese?
«Sì, potrebbe influire in parte anche se è difficile fare valutazioni perché da un certo punto di vista potrebbe invece esserci l’effetto contrario, cioè che l’emotività e l’instabilità spingano a scegliere di favorire la continuità e a compattare il Paese attorno alla leadership che è già presente. Molto dipenderà da come il governo riuscirà a far fronte al bisogno enorme che ora ha la popolazione».
Siria e Turchia sono due Stati che hanno rapporti abbastanza tesi. Questa catastrofe potrebbe in qualche modo avvicinarli?
«C’era già stato un tentativo di riavvicinamento, nel senso che la Turchia sta cercando di stabilizzare la situazione intorno a sé perché è chiaro che in questo momento si trova circondata da diversi conflitti e questo chiaramente non favorisce la sua economia. Si è comunque visto come la solidarietà tra i paesi della regione è andata ben oltre quelle che sono le distanze politiche. Si è vista una grande collaborazione di Paesi che fino a poco tempo fa erano molto distanti, a cominciare dalla Grecia e da Israele, ed è un segnale positivo. La cooperazione tra nazioni mi sembra la strada da perseguire a livello internazionale per evitare eventuali conflitti».