L’impegno deve cambiare di segno. L’ha spiegato bene Gabrio Forti, professore emerito di Diritto penale e direttore dell’Alta Scuola Federico Stella sulla giustizia penale, dicendo che occorre passare «da un’idea di donna vittima della guerra e soggetto debole da tutelare alla consapevolezza della forza delle donne che resistono. La cosmologia culturale di noi studiosi ha stelle femminili da cui traiamo ispirazione. Il tema dell’attenzione, per esempio, l’abbiamo imparato da Susan Sontag e Simone Weil. Quindi, anche in contesti oggi molto difficili, possiamo aspettarci una capacità resiliente delle donne».
Una forza che va sostenuta attraverso la giustizia. Ma come ha spiegato Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale, «la giustizia non si amministra, si fa. E si fa insieme in molti modi. Una delle più interessanti definizioni di giustizia è quella delle Nazioni Unite come giustizia di transizione, dopo le guerre verso qualcosa di meglio. Giustizia che è fatta di una combinazione di strumenti giuridici, istituzionali, educativi, sociali, artistici, un lavoro di memoria».
In questa direzione è stato costruito il progetto di tre giornaliste di Avvenire a sostegno delle donne afghane che si è tradotto nel docufilm The Dreamers: Afghan women’s resistence e poi nel libro Donne per la pace.
Viviana Daloiso, Lucia Capuzzi e Antonella Mariani, dopo la proiezione del documentario, hanno raccontato il loro lavoro nato dal bisogno di dare voce alle donne che non l’avevano più, riscoprendo così le origini del giornalismo, ovvero raccontare storie, ogni storia. «Abbiamo chiesto aiuto anche ai nostri lettori per sostenere le donne afghane che volevano continuare a studiare e abbiamo creato una rete che ha generato aiuto, istruzione, amicizia, informazione sulle realtà dell’Afghanistan attraverso la voce delle donne» – ha detto Daloiso.
«Le donne non si arrendono, anzi vogliono essere considerate protagoniste e tutte siamo eredi della resistenza delle prime donne che ci hanno aperto la strada – ha raccontato Capuzzi –. Vogliono studiare perchè questo vuol dire riappropriarsi del diritto di parola, essere riconosciute come esseri umani. Quelle ragazze compiono una serie di gesti eversivi: cantano, studiano, ballano, parlano, pensano… fanno tutto ciò che non è consentito nel loro Paese. Questo orizzonte di speranza è vedere oltre la tragedia del presente».
Questo è il “giornalismo costruttivo” di cui c’è bisogno per raccontare la realtà. E oggi queste donne afghane sono tra noi. Mariani ha spiegato che «stanno combattendo ancora la loro dura battaglia. Sono molto istruite: erano diplomatiche, magistrate, giudici, poliziotte, direttrici di scuole, chirurghe prima che i talebani distruggessero tutto. E oggi combattono perché sia riconosciuto il loro titolo di studio».
Per millenni le donne sono state tenute fuori dallo spazio pubblico e questo ha permesso loro di sviluppare strategie in grado di trovare composizioni dei conflitti e di avere un ruolo di mediatrici molto più spiccato degli uomini.
A prendere la parola durante il seminario sono state poi la psicologia, le discipline sociali e giuridiche, e le arti perché, come ha sottolineato la professoressa Iafrate, è importante creare occasioni di incontro inter e trans disciplinare dove tutti i linguaggi si integrano e dialogano per dare voce alle donne che non si arrendono.
Così, Margherita Lanz, coordinatrice didattica della Scuola di dottorato in Psicologia, ha espresso il desiderio di «sostenere le giovani ricercatrici che arrivano nel nostro Ateneo da situazioni difficili». Fariba Soheili, studentessa di questo dottorato, ha parlato delle donne iraniane oggi molto più consapevoli dei loro diritti, invitando a combattere l’indifferenza. Luca Milani, docente di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione, ha esposto dati e numeri che parlano di stereotipi di genere e della violenza perpetrata in contesti di isolamento, di sfiducia verso le norme e le istituzioni, di distorsione dell’empatia, e di violenza assistita che genera nei figli un’alta probabilità di reiterazione degli stessi atti.
Da parte di Maria Luisa Raineri, docente di Sociologia generale, è tornato il richiamo all’attenzione e all’ascolto, presupposti per dare voce alle donne, e anche alla cura e alla giustizia delle parole, come ha sottolineato Marta Lamanuzzi, docente di Diritto penale, smascherando narrazioni giurisprudenziali ancora spesso maschiliste.
E poi le arti. Portavoce di “Progetto Genesi. Arti e diritti umani”, la curatrice Ilaria Bernardi ha fatto riferimento a donne artiste che raccontano la violenza di genere. Velania La Mendola, curatrice del progetto “I giusti continuano a leggere”, ha richiamato l’importanza di distinguere tra lettura e consumismo culturale perchè la lettura ci faccia concentrare e concorra a dare alla nostra vita un significato pieno. E infine due musiciste, anche docenti, Francesca Fantini e Laura Vergallo Levi hanno raccontato di donne musiciste che sono un’eredità scoperta di recente e rimasta nascosta per secoli perché le donne potevano comporre e suonare solo in contesti privati e non professionali. Le note di alcune di loro le hanno regalate alla platea in Aula Magna, introdotte dal professor Enrico Reggiani, docente di Letteratura Inglese e direttore dello Studium Musicale di Ateneo.
Ascoltando questa musica si è compiuto un “atto riparativo”, come ha ricordato Claudia Mazzucato, nella consapevolezza che «il male non è eterno e che i percorsi di guarigione cominciano da ciascuno di noi».