Il “Manifesto” è chiaro sulle «sirene da non seguire»: la negazione dell’emergenza climatica, il rilancio del mercantilismo, la protezione sull’innovazione tecnologica, l’autarchia demografica, il solo ombrello americano per difesa e sicurezza. Sette, invece, le raccomandazioni per realizzare un federalismo graduale e pragmatico: la riforma del bilancio comunitario, l’approvazione di regole fiscali per assicurare la sostenibilità della finanza pubblica, il completamento della capital markets union, una politica industriale per superare il gap tecnologico, una rinnovata politica degli aiuti di stato che supporti il mercato unico, una strategia per l’istruzione e la formazione nonché per l’integrazione dei migranti, un approccio comune su sicurezza e difesa.
«Per fare tutto questo è necessario cambiare le regole del gioco economico e dell’assetto istituzionale», osserva Buti. Per esempio, bisogna «ripensare il meccanismo di voto all’interno del Consiglio Ue, prevedere una configurazione a geometria variabile in aree politiche ben definite, modificare i Trattati». Passi necessari se si guarda al futuro e a un’Europa costituita da 35 Stati membri.
Eppure, se la diagnosi sull’Europa proposta dal “Manifesto” è corretta - due guerre in corso, la perdita di terreno della Ue, un modello export messo in crisi, il crollo demografico -, il documento in sé resta «controverso». La pensa così Massimo Bordignon, docente di Scienza delle finanze in Cattolica e attualmente membro dell’European Fiscal Board, un comitato di consulenza del presidente della Commissione europea, tra i relatori del dibattito insieme con Vittorio Emanuele Parsi, direttore di Aseri - Alta Scuola di Economia e relazioni internazionali, e due firmatari del documento, i docenti dell’Università Bocconi Eleanor Spaventa e Guido Tabellini.
Riferendosi al “Manifesto”, secondo Bordignon non tutti potrebbero essere d’accordo nella messa in comune di risorse per affrontare i problemi futuri - visto da alcuni come un “trucco” per redistribuirle a favore di paesi senza spazi fiscali -, nel rinunciare al principio di quasi unanimità tra paesi per decisioni importanti o nell’attribuire maggior ruolo politico alla Commissione. «Il problema di fondo è un’Europa inter-governativa», che si muove con «compromessi all’ultimo secondo o al ribasso, dove tutti devono tornare a casa portando qualcosa». La vera spinta da introdurre, come sostiene anche Eleanor Spaventa, è superare quindi il «modello inter-governativo» che ha preso piede in Europa, con un conseguente ripensamento del ruolo di istituzioni, tra cui Parlamento e Commissione.
Quello che invece il professor Parsi obietta al “Manifesto” è la mancanza di un’anima politica. Serve uno shock politico, visto che neppure quelli esterni, come la guerra in Ucraina, non bastano più. Va invertita l’idea che l’Europa rappresenti l’ultima chance, la scialuppa di salvataggio, cercando al contrario «di usare le elezioni europee per quello che sono: uno strumento per riformare la politica».
Di qui la necessità di «rinforzare l’identità comune europea». Lo dice bene Guido Tabellini secondo cui istruzione nel lungo periodo ed elezione diretta del presidente della Commissione europea nel più breve termine possono essere alcune risposte per portare l’Europa più vicino ai cittadini. «I grandi paesi democratici sono quasi tutti repubbliche presidenziali proprio perché l’elezione diretta è un momento che crea unificazione all’interno dei confini nazionali», osserva. Questo richiede «tempi lunghi», ma forse è la sola strada da seguire se si vuole valorizzare il modello Europa a fronte di minacce esterne.