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Un manifesto per l’Europa alla ricerca di un’anima politica

15 dicembre 2023

Un manifesto per l’Europa alla ricerca di un’anima politica

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Da un lato, la guerra in Ucraina non accenna a trovare soluzioni. Dall’altro, si è riaccesa la tragedia mediorientale con una potenziale spirale di instabilità. Un contesto geopoliticamente “caldo” per l’Europa, reso ancora più complesso dal clima di guerra fredda tra Stati Uniti e Cina e dall’imminenza di due importanti scadenze elettorali per l’anno 2024: le europee di giugno e le presidenziali statunitensi di novembre.

L’Europa è chiamata ad assumersi maggiori responsabilità in uno scenario sempre più instabile. È quanto propone il “Manifesto per l’Unione europea al tempo della nuova guerra fredda”, pubblicato in versione italiana nel mese di ottobre sul quotidiano “Il Sole 24 Ore”. L’assunto di fondo del documento? «Un modello socio-economico insostenibile», e per questo «da superare», ridefinendo «l’agenda di policy europea» con l’intento di «riportare l’Europa ad assumere il ruolo di attore globale» all’interno di uno scenario in cui al puro gioco di potere contrappone un «approccio multilaterale» e di «cooperazione». A spiegare nel dettaglio le ragioni che stanno dietro al “Manifesto” è uno dei suoi principali firmatari, Marco Buti, già capo di gabinetto del Commissario europeo per l’Economia Paolo Gentiloni e direttore generale alla Commissione europea, attualmente professore all’European University Institute di Firenze.

Nell’ambito di un dibattito promosso martedì 12 dicembre all’Università Cattolica dall’Associazione per lo sviluppo degli studi di banca e borsa e dal Dipartimento Economia e Finanza dell’Università Cattolica e introdotto dal rettore Franco Anelli, Buti, rispondendo alle sollecitazioni della giornalista del Financial Times Silvia Sciorilli Borrelli, entra nel merito del documento sottoscritto da numerosi e autorevoli esponenti del mondo accademico, economico e politico italiano ed europeo.

 

 


Il “Manifesto” è chiaro sulle «sirene da non seguire»: la negazione dell’emergenza climatica, il rilancio del mercantilismo, la protezione sull’innovazione tecnologica, l’autarchia demografica, il solo ombrello americano per difesa e sicurezza. Sette, invece, le raccomandazioni per realizzare un federalismo graduale e pragmatico: la riforma del bilancio comunitario, l’approvazione di regole fiscali per assicurare la sostenibilità della finanza pubblica, il completamento della capital markets union, una politica industriale per superare il gap tecnologico, una rinnovata politica degli aiuti di stato che supporti il mercato unico, una strategia per l’istruzione e la formazione nonché per l’integrazione dei migranti, un approccio comune su sicurezza e difesa.

«Per fare tutto questo è necessario cambiare le regole del gioco economico e dell’assetto istituzionale», osserva Buti. Per esempio, bisogna «ripensare il meccanismo di voto all’interno del Consiglio Ue, prevedere una configurazione a geometria variabile in aree politiche ben definite, modificare i Trattati». Passi necessari se si guarda al futuro e a un’Europa costituita da 35 Stati membri.

Eppure, se la diagnosi sull’Europa proposta dal “Manifesto” è corretta - due guerre in corso, la perdita di terreno della Ue, un modello export messo in crisi, il crollo demografico -, il documento in sé resta «controverso». La pensa così Massimo Bordignon, docente di Scienza delle finanze in Cattolica e attualmente membro dell’European Fiscal Board, un comitato di consulenza del presidente della Commissione europea, tra i relatori del dibattito insieme con Vittorio Emanuele Parsi, direttore di Aseri - Alta Scuola di Economia e relazioni internazionali, e due firmatari del documento, i docenti dell’Università Bocconi Eleanor Spaventa e Guido Tabellini.

Riferendosi al “Manifesto”, secondo Bordignon non tutti potrebbero essere d’accordo nella messa in comune di risorse per affrontare i problemi futuri - visto da alcuni come un “trucco” per redistribuirle a favore di paesi senza spazi fiscali -, nel rinunciare al principio di quasi unanimità tra paesi per decisioni importanti o nell’attribuire maggior ruolo politico alla Commissione. «Il problema di fondo è un’Europa inter-governativa», che si muove con «compromessi all’ultimo secondo o al ribasso, dove tutti devono tornare a casa portando qualcosa». La vera spinta da introdurre, come sostiene anche Eleanor Spaventa, è superare quindi il «modello inter-governativo» che ha preso piede in Europa, con un conseguente ripensamento del ruolo di istituzioni, tra cui Parlamento e Commissione.

Quello che invece il professor Parsi obietta al “Manifesto” è la mancanza di un’anima politica. Serve uno shock politico, visto che neppure quelli esterni, come la guerra in Ucraina, non bastano più. Va invertita l’idea che l’Europa rappresenti l’ultima chance, la scialuppa di salvataggio, cercando al contrario «di usare le elezioni europee per quello che sono: uno strumento per riformare la politica».

Di qui la necessità di «rinforzare l’identità comune europea». Lo dice bene Guido Tabellini secondo cui istruzione nel lungo periodo ed elezione diretta del presidente della Commissione europea nel più breve termine possono essere alcune risposte per portare l’Europa più vicino ai cittadini. «I grandi paesi democratici sono quasi tutti repubbliche presidenziali proprio perché l’elezione diretta è un momento che crea unificazione all’interno dei confini nazionali», osserva. Questo richiede «tempi lunghi», ma forse è la sola strada da seguire se si vuole valorizzare il modello Europa a fronte di minacce esterne.

 

Un articolo di

Katia Biondi

Katia Biondi

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