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Un microchip combatte la cecità nelle distrofie retiniche

10 dicembre 2021

Un microchip combatte la cecità nelle distrofie retiniche

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Il primo dispositivo NR-600 in Italia su un soggetto non vedente è stato impiantato il 20 ottobre al Policlinico Gemelli. Il dispositivo, prodotto dalla compagnia israeliana Nano Retina Ltd., rappresenta l’ultimo ritrovato nel campo delle protesi retiniche. Si tratta di un sistema caratterizzato da due elementi: un meccanismo miniaturizzato che viene impiantato all’interno della retina mediante intervento chirurgico ed un paio di occhiali esterni dotati di specifiche funzioni e design. 

Lo scopo principale di NR-600 è quello di ripristinare una capacità visiva rudimentale, ma allo stesso tempo funzionale, in pazienti affetti da distrofie retiniche ereditarie in stato avanzato ossia con un residuo visivo pari alla sola percezione luminosa (presente o assente da massimo cinque anni). 

Nelle distrofie retiniche ereditarie come la retinite pigmentosa o la distrofia dei coni e dei bastoncelli, i fotorecettori vanno incontro ad una morte cellulare programmata ed il tessuto retinico viene progressivamente perso a causa di una disfunzione genetica. Allo stato attuale delle conoscenze, nella stragrande maggioranza dei casi, non è ancora possibile riparare l’alterazione presente nel DNA, né tantomeno recuperare il patrimonio di fotorecettori morti. Tuttavia, gli strati retinici più interni, non essendo colpiti direttamente dalla mutazione genetica, possono rimanere vitali. 

Il dispositivo NR-600 si pone l’ambizioso obiettivo di sostituire i fotorecettori perduti mediante una protesi, il cui compito è convertire gli input visivi in stimoli elettrici sollecitando propriamente l’attività neuronale della retina interna. Il segnale ad essi trasmesso utilizza un percorso visivo naturale e si propaga lungo la via ottica fino a raggiungere la corteccia visiva, dove i segnali vengono percepiti come fosfeni.

Affinché il funzionamento del dispositivo si realizzi in maniera adeguata occorre indossare un paio di occhiali costruito su misura. Gli occhiali sono dotati di una lente speciale che proietta un raggio infrarosso sull’impianto. A sua volta, il raggio infrarosso alimenta l’impianto e quest’ultimo converte gli stimoli fisici in segnali elettronici tramite le celle fotovoltaiche che lo costituiscono. I segnali elettrici si propagheranno alle cellule nervose circostanti attraverso una matrice di 576 microelettrodi contenuta nella parte del dispositivo che è a contatto con la retina.

L’inizio di questo percorso nel nostro Paese, può essere datato il 28 dicembre 2020, quando è stata effettuata la Site Initiation Visit presso il Policlinico Gemelli ed è cominciato un training di tre mesi da parte della compagnia israeliana volto alla formazione di due field clinical engineers, professionisti sanitari di area tecnico-riabilitativa deputati al settaggio del dispositivo.
 


Il dispositivo NR-600 si pone come il successore di altri impianti retinici che utilizzano la stimolazione elettrica per attivare la rete di cellule funzionanti localizzate nella retina interna: l’Argus II, realizzato dalla società americana Second Sight Medical Products e l’Alpha IMS, prodotto in Germania da Retina Implant AG.

Entrambi i dispositivi possono ripristinare una funzione visiva di base, migliorare le prestazioni nei test correlati alla visione e aumentare la possibilità di movimento in ambiente dei pazienti con Retinite Pigmentosa, tuttavia, la qualità delle immagini ottenute rimane ancora scarsa. Il sistema Argus II ha un limite di soli 60 pixel per la formazione dell'immagine, mentre il sistema Alpha IMS deve essere impiantato sotto la retina, operazione molto impegnativa dal punto di vista chirurgico con un tasso di complicanze relativamente elevato. 

Dal canto proprio, il sistema NR-600 tenta di superare i limiti delle protesi precedenti cercando di migliorare la risoluzione mediante l’elaborazione di un’immagine che può arrivare fino a 576 pixel e stimolare localmente le cellule bersaglio attraverso l’uso di elettrodi 3D di piccolissime dimensioni capaci di penetrare fisicamente negli strati retinici più interni e stimolarli in maniera diretta. Il tutto viene realizzato attraverso un approccio chirurgico che, seppur nella sua complessità, utilizza delle tecniche standardizzate.
L’inserimento del dispositivo nella retina avviene, infatti, attraverso una procedura che dura circa due ore e mezza e si effettua in anestesia generale.

Per prima cosa, vengono rimossi il cristallino naturale ed il corpo vitreo (il gel trasparente che dà forma al bulbo e riempie lo spazio tra il cristallino e la retina). In una seconda fase, si effettua un’incisione sulla cornea attraverso la quale viene inserito il dispositivo che verrà fissato sulla retina. Infine, un cristallino artificiale viene collocato al posto di quello naturale.
Il buon funzionamento di una protesi, tuttavia, non dipende soltanto dalla buona riuscita dell’intervento. Per imparare a sfruttare al meglio le potenzialità del dispositivo, occorre dapprima customizzarlo e, secondariamente, condurre un percorso riabilitativo che consenta al paziente di individuare le sagome degli oggetti, identificarli e favorire così il suo orientamento nell’ambiente. In termini pratici, grande motivazione e forza di volontà unite ad un substrato psicologico equilibrato e ad un valido supporto familiare, sono elementi essenziali per chi sceglie di intraprendere questo percorso che dura ben nove mesi.

Il primo paziente impiantato non ha avuto effetti collaterali e il suo recupero è stato rapido. Il primo intervento è stato seguito da un secondo, su un altro paziente, il 17 novembre, anche questo andato a buon fine. I dati provenienti da tutti i centri coinvolti in questo trial clinico (ce ne sono due in Belgio, dove sono stati fatti cinque interventi, due in Italia e uno in Israele, dove è stata operata un’altra persona) dimostrano che il dispositivo è, primariamente, sicuro. In nessun paziente finora operato sono stati segnalati eventi avversi gravi.

Tuttavia, i primissimi risultati impongono di avere uno sguardo realistico sulle aspettative: ripristinare le capacità visive attraverso questo sistema non significa restituire all’ammalato una visione normale come quella che aveva prima dell’insorgenza dei sintomi più severi. La visione “artificiale” che è in grado di fornire NR-600 si caratterizza come una visione fatta di pixel in bianco e nero ed un campo visivo limitato ad otto gradi centrali.  
Dopo le prime cinque sedute di ottimizzazione, il primo paziente operato è stato in grado di percepire ed afferrare un rettangolo bianco posto su una lavagna magnetica nera, nonché di definire i bordi della stessa. È certamente una buona partenza se si considera che un mese prima non era neppure in grado di percepire luci ed ombre.

Questo primo passo dimostra quanto siano essenziali le figure del Field Clinical Engineer e del Low Vision Therapist ai fini di un reale successo terapeutico. Il primo ottimizza la protesi per massimizzarne le prestazioni ed insegna al paziente come avvalersi dei programmi memorizzati nel software degli occhiali per ottenere il beneficio più adatto al contesto situazionale. L’ortottista che si occupa di ipovisione, invece, lo segue in un percorso incentrato sul recupero del nuovo residuo visivo attraverso esercizi e test volti ad acquisire ed affinare un nuovo modo di vedere le cose.
Il perfezionamento di protesi retiniche sempre più sofisticate, unitamente all’avvento delle prime terapie geniche in campo clinico e agli studi condotti sulle cellule staminali, evidenzia gli sforzi della comunità scientifica nel porre un freno alla progressione delle distrofie retiniche ereditarie e riaccende nei pazienti una speranza di cura della loro malattia, indipendentemente dallo stadio in cui si trovino.
 

Un articolo di

Stanislao Rizzo e Giorgio Placidi

professore di Malattie dell’Apparato Visivo all'Università Cattolica, e Ortottista presso lo stesso Ateneo

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