Il 17 gennaio 2024 ricorre la dodicesima edizione della “Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali”, La giornata celebrativa si svolge secondo le direttive dell'Unesco, nell'ambito della convenzione per la salvaguardia dei patrimoni culturali immateriali, ed è stata istituita nel 2013 proprio dall'unione nazionale delle pro loco per sensibilizzare istituzioni e comunità locali alla tutela e valorizzazione delle lingue locali.
Ogni singola espressione in dialetto è veicolo delle conoscenze e delle tradizioni di un determinato territorio. Dialetti e lingue locali sono pertanto indispensabili alla trasmissione di veri e propri patrimoni culturali fra le generazioni. Giovanni Gobber, preside della Facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere dell’Università Cattolica, ci spiega e racconta nascita, provenienza e origine dei dialetti italiani, alla luce della considerazione che il nostro Paese è la nazione europea più ricca di dialetti.
Qual è l’origine dei dialetti italiani?
«Sono continuazioni diverse delle forme di latino usate dopo la fine dell’impero romano d’occidente. L’impasto di base è “romanzo” – cioè uno sviluppo della base latina, caratterizzato da forte differenziazione geografica e sociale. Le varie pronunce risentono anche di influssi di altre parlate, con cui erano entrati in contatto già anticamente. Si trovano poi imprestiti giunti da ogni dove – da quel che precedeva il latino a quel che arrivò dopo (forme di matrice germanica, greca, araba), fino agli influssi recenti d’oltralpe e ai contatti con l’italiano, lingua “alta”, e con gli altri dialetti».
Ma tutti i dialetti italiani hanno come antenato il latino?
«Sì, se per dialetti italiani intendiamo quelli di matrice romanza – che continuano gli sviluppi del latino parlato. Però in Italia vi sono dialetti romanzi che di solito non sono trattati come “italiani”. Per esempio, in Valle d’Aosta sono diffuse parlate franco-provenzali, che si trovano anche oltralpe, nella Savoia e nella Svizzera romanda. A sancire tale diversità vi è il riconoscimento del francese come seconda lingua della Valle d’Aosta. Nelle valli alpine del basso Piemonte vi sono poi alcune testimonianze di occitano. Nelle valli dolomitiche e nell’alto Bellunese si trova un’area ladina che rivendica autonomia dialettale rispetto all’area italiana, e lo stesso vale – più a oriente – per lo spazio del friulano. Anche l’area dialettale sarda, nelle sue varie manifestazioni, si caratterizza in modo autonomo rispetto a quella italiana; e in Sardegna, nel territorio di Alghero, vi è una varietà di catalano. In Gallura e nel Sassarese vi sono dialetti còrsi (il còrso è fatto di più dialetti, alcuni vicini al toscano, altri vicini a quelli siciliani). Per ciascuna di queste comunità, è riconosciuta anche una lingua “alta”, che ha forma scritta – ci sono così le lingue ladina, friulana, sarda, catalana (ma le varie comunità usano più i dialetti che la varietà scritta “alta”) e persino il gallurese».
«Tuttavia, pure dentro all’area italiana le differenze sono molto elevate: il bergamasco e l’abruzzese sono più lontani l’uno dall’altro di quanto siano il ladino e il veneto bellunese. In casi simili, i confini dialettali non sono netti, ma sfumati (fuzzy), e i dialetti italiani di confine (p.es. quelli piemontesi) condividono tratti dialettali di aree romanze vicine. Non dimentichiamo poi che ci sono parlate romanze diffuse in territori lontani dalla comunità di origine: è p.es. il caso dei dialetti gallo-italici di alcune località siciliane, o del tabarchino (una forma di ligure) nel Sulcis, in Sardegna».
«Inoltre, in Italia non ci sono solo dialetti romanzi. Al nord vi sono due gruppi di parlate germaniche: uno è l’alemanno dei Walser di Gressoney, Alagna, val Formazza – e furono portate da comunità giunte dal Vallese (erano svizzeri che emigravano…); l’altro è il bavarese delle comunità insediate in territori veneti (altipiano di Asiago, Monti Lessini), trentini (p.es. Luserna, Lavarone, val dei Mòcheni), friulani (Sappada, Sauris, Timau, val Canale); nel Tirolo vi sono le parlate bavaresi che sono in continuità territoriale con quelle al di là delle Alpi, nel Tirolo austriaco. Abbiamo poi lo sloveno di Trieste, i dialetti sloveni delle valli friulane di confine (caso limite è la val Canale: vi convivono parlate germaniche, slave, romanze) e la piccola, ma vitale comunità slava del Molise. In giro per le terre del Sud vi sono varietà di albanese (“arbëreshe”, soprattutto in Calabria e in Sicilia) e di greco. A quelli citati sopra aggiungiamo il gruppo indoario rappresentato dal romanì, cioè la parlata dei Rom e dei Sinti».
«Ricordare tutte le parlate non romanze d’Italia richiederebbe pagine e pagine; abbiamo citato solo le più note, e in molti di questi casi lo Stato italiano riconosce anche una lingua “tetto”, cui la comunità minoritaria dialettofona fa riferimento. Sono noti i casi del tedesco per le comunità germanofone, dello sloveno a Trieste, dell’albanese per le comunità degli Arbëreshe».
È vero che il panorama dialettale italiano costituisce il patrimonio linguistico più ricco e variegato di tutta l’Europa?
«Senza dubbio. In Italia troviamo molti dialetti romanzi, ben diversi fra loro, e numerose comunità linguistiche di altri gruppi indo-europei. Aggiungiamo che per molti dialetti vi è una varietà scritta, usata nelle funzioni sociali di prestigio; per esempio, il veneto, il genovese, il napoletano hanno una tradizione gloriosa, ancora viva. Inoltre, spesso si tende ad associare a ogni regione italiana una lingua: il piemontese, il lombardo, il veneto, l’abruzzese e così via. È un punto di vista un po’ riduttivo, ma rappresenta in modo efficace l’irriducibilità dei dialetti d’Italia all’italiano».
Qual è la regione italiana con il maggior numero di dialetti?
«È difficile rispondere a questa domanda perché non è facile stabilire i confini e la distanza di un dialetto rispetto ad altri dialetti. Un dialetto non è un sistema ben delimitato, con una brava comunità di parlanti che lo realizza in modo uniforme. Vi sono piuttosto spazi di variazione, con alcune caratteristiche (fonetiche, grammaticali, culturali, pragmatiche) più o meno condivise fra i parlanti di una data comunità (e a seconda dello sguardo di chi osserva, la comunità può essere più o meno ampia e composita: può essere la popolazione di un paese, di una valle, di una città, delle zone rurali di un territorio…). L’insieme delle caratteristiche più o meno comuni fa quel che si chiama, in modo riduttivo, “il” dialetto di un dato luogo. Avviene che in una regione i dialetti condividano molte caratteristiche, come in Veneto o in Toscana».
E nelle altre Regioni?
«Altrove i dialetti si differenziano parecchio: è il caso della Lombardia, il cui ricco patrimonio linguistico è articolato in vari gruppi dialettali (in modo approssimativo, ve n’è uno per provincia) i quali non si lasciano ridurre a uno solo (p.es. altro è il bergamasco, altro è il lecchese). Per l’eterogeneità linguistica, va segnalato il caso del Friúli, che ha parlate romanze diverse (venete, friulane) accanto a comunità minori che, insieme al friulano, usano varietà germaniche o slave (o entrambe). La Calabria ha dialetti romanzi che a nord sono vicini al lucano, al centro e al sud tendono verso il siciliano; inoltre, ha l’illustre tradizione di lingua e cultura arbëreshe, ma anche alcune – ora esigue – comunità grecaniche nei territori più a sud; vi è poi il guardiòl, la parlata occitana di Guardia Piemontese (Cosenza), che risale a un insediamento trecentesco di una comunità valdese in fuga da persecuzioni religiose. E che dire della Sardegna? La parte del leone tocca al sardo, che è articolato in tre gruppi dialettali; vi è poi il catalano ad Alghero, il tabarchino nelle isole del Sulcis e il corso. Bisogna poi considerare le funzioni sociali del dialetto: nelle regioni con molti centri urbani possono esservi varietà scritte che hanno maggior prestigio delle parlate più ristrette localmente. Vi sono dialetti più elaborati – più “ricchi” – di altri…».
La lingua ufficiale della Repubblica Italiana discende storicamente dal dialetto toscano letterario parlato a Firenze fin dal XIII secolo, usato da Dante, Petrarca e Boccaccio. Si può quindi dire che l’italiano non è altro che un dialetto “che ce l’ha fatta a imporsi”?
«“Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina”: il detto è attribuito a un allievo di Max Weinrich, che fu il fondatore degli studi di yiddish (e insegnò prima a Vilnius, poi, dal 1939, fuggito all’arrivo dei tedeschi, in America). Varianti: “una lingua è un dialetto con un parlamento, un esercito, una moneta” (Georges Lüdi, studioso svizzero); “una lingua è un dialetto che ha fatto carriera” (Gaetano Berruto, sociolinguista italiano)».
«Il fiorentino, tuttavia, non si è imposto con eserciti e parlamenti, ma grazie al prestigio culturale. Oltre alla grande letteratura, alle arti, alla moda di casa Medici, era anche lingua della finanza, nel medioevo. Altro fattore è la struttura linguistica del toscano in generale, che risultava comprensibile ovunque, nei territori italiani – mentre altri dialetti, come il milanese, erano meno accessibili. Chissà, la cassoeula avrebbe avuto maggior successo se avesse preso un nome fiorentino…».
«In guisa di conclusione: che cosa è una lingua? È un dialetto elaborato, dotato degli strumenti adeguati per svolgere tutte le funzioni sociali di prestigio. E che cosa è un dialetto? È una lingua che non ha voglia di lasciarsi elaborare troppo. A un dialetto piace poco indossare vestiti “impegnativi”, che richiedono controllo dei movimenti e rinuncia a comportamenti “rilassati”. I dialetti sono ruspanti, le lingue sono fatte per vivere a corte. Almeno, così era fino a epoche recenti. Poi, molte lingue – come l’italiano – si sono diffuse, hanno preso le pose dei dialetti e si sono “rilassate”. Così facendo, sono emersi nuovi dialetti – i dialetti dell’italiano, cioè i diversi modi di usare la lingua italiana, a seconda del territorio e dei gruppi sociali».
Nella foto: Mappa delle Lingue e Gruppi dialettali italiani | Autore: Antonio Ciccolella - CC BY-SA 4.0 DEED