4. Oltre l’incertezza del presente
Gli ultimi decenni sono stati dominati dal topos della complessità; Edgar Morin – che ha da poco compiuto i cento anni – ce lo ha ben spiegato: la complessità mette in discussione la logica deduttiva, che si esercita su ciò che è isolabile e parcellizzato e sollecita un ritorno alla radice etimologica dell’intel-ligere e del cum-prehendere, attraverso un metodo di pensiero la cui essenza è collegare: ricostruire le connessioni tra gli elementi e il contesto, l’uno e il molteplice, il locale e il globale (o meglio: planetario). Però, almeno nella percezione diffusa, nella volgarizzazione, quella della complessità è a lungo apparsa come una “sfida” che era possibile raccogliere e affrontare semplicemente affinando gli strumenti noti. Ora invece il panorama sembra avvolto da una nebbia epistemica più fitta, che genera una consapevolezza dei limiti di quella capacità di lettura del reale - della realtà naturale come di quella sociale - che nella stagione del trionfante progresso tecnologico aveva alimentato un fiducioso ottimismo; l’esperienza umana si confronta con un inquietante disordine strutturale: «un problema del mondo reale non è mai separato con assoluta certezza dalle altre cose che ci sono in quel mondo» – ha scritto Douglas Hofstadter – «e non vi è modo di prevedere quali e quante altre cose potrebbero essere coinvolte in seguito a qualche piccola variazione rispetto a quello che ci si aspetta».
Fenomeni come il cambiamento climatico o la pandemia (ma lo stesso si potrebbe dire delle improvvise crisi economiche e geopolitiche che hanno scosso la stabilità del mondo), ci si pongono innanzi come problemi la cui soluzione non è semplicemente questione di tempo, mentre nell’era della signoria della tecnica sembrava che ci fosse solo richiesto di attendere, perché alla fine ogni interrogativo avrebbe trovato risposta, e ogni obiettivo, dalla conquista della luna alla sconfitta delle malattie, sarebbe stato infallibilmente conseguito.
Un contesto conoscitivo ineffabile e sfuggente provoca, quasi inevitabilmente, anche un allentamento dei legami che tengono unite le società. Scosse da minacce inattese, le comunità non si ritrovano attorno a principi e obiettivi aggreganti, ma sbandano e si frammentano. Ultimamente si pone un problema di identità, che «implica una cerchia stabile di riconoscimenti nella durata». In un simile contesto l’università deve riscoprire il suo ruolo unificante, porsi come comunità di tanti che «convergono ‘verso uno’, un luogo, un tempo, uno spirito», come ci ha appena detto il Santo Padre.
5. Il valore delle istituzioni
Per affrontare l’impegno le università devono anzitutto concepirsi come istituzioni. Può apparire ozioso ribadirlo, ma solo la saldezza e affidabilità delle istituzioni può ridurre il grado di insicurezza e imprevedibilità che pervade le nostre democrazie, offrendo punti di riferimento. La stessa Europa unita ha mostrato capacità di dare stimolo e speranza nella crisi generata dalla pandemia nel momento in cui ha riaffermato un valore fondamentale, quello della solidarietà, intesa non come azione di soccorso, ma come riconoscimento del carattere comune di una minaccia e dunque della necessità di affrontarla in una prospettiva unitaria, gli uni al fianco degli altri. Le università possono allora candidarsi ad essere uno dei punti di saldatura tra sviluppo delle conoscenze e finalità pubbliche, operando in via diretta, ossia producendo nuova conoscenza sottratta alla “privatizzazione” del sapere e delle sue applicazioni, e indiretta, per mezzo di processi di formazione che contribuiscano a creare una società più colta, e non soltanto più addestrata, diffondendo la conoscenza come valore sociale e politico.
Non vi è in questo nulla di nuovo, anzi si richiede di recuperare – contro le derive verso lo specialismo a tratti apparse inevitabili – la fondamentale dimensione di luogo di coltivazione di un sapere integrale, e dunque di un’aspirazione alla saggezza e alla sapienza, a una conoscenza orientata e resa viva dal senso del sapere. È ancora Edgar Morin a delineare il campo d’azione, quando pone il problema di uscire da quella condizione antropologica che ci vede ancora immaturi e impreparati di fronte a quella che egli chiama, con una formula di straordinaria efficacia, l’“Età del ferro planetaria”: ebbene, dice Morin, «Questo compito rende necessaria una riforma del nostro modo di conoscere, una riforma del nostro modo di pensare, una riforma dell’insegnamento: tre riforme interdipendenti».
6. L’Università come istituzione creativa
Sulla base di queste considerazioni, penso che un’università come la nostra debba proporsi di operare come un’istituzione creativa. In una stagione di disorientamento, le università appaiono tra le poche realtà la cui funzione è rimasta pressoché intatta e pedagogicamente necessaria alla crescita delle generazioni. Per conservare quel ruolo occorre ritornare all’antica missione dell’universitas, che già le aveva assegnato John Henry Newman: quello di dar forma a un “intelletto educato”. Però, rispetto ai tempi di Newman, il quadro di riferimento non è più coerente; la stessa idea di progresso non è più univoca: oggi occorre affrontare con creatività e rinnovata capacità di sintesi i temi dell’ambiente, della salute, della dialettica con una tecnologia che appare sovrastante e sfuggente, e della necessità di una sua ritrovata “umanizzazione”. I vecchi strumenti non sembrano bastare, occorre un nuovo sguardo, un “nuovo umanesimo” ci dice il Santo Padre, e anche tante voci del pensiero laico.
7. Ciò che è stato fatto
Permettetemi ora di dare brevemente conto di alcune delle attività svolte nell’ultimo anno, nel quale il nostro Ateneo ha tenuto acceso il fuoco della propria attività formativa e di studio. Indico qualche dato senza dilungarmi: abbiamo affidato la sintesi a un Bilancio di Missione che abbraccia i cento anni dell’esperienza dell’Università Cattolica. Un documento originale nella sua concezione, che spero troverete interessante. Le nostre 12 Facoltà hanno attivato 104 corsi di laurea e gli iscritti ai programmi formativi, compresi quelli post lauream, sono oltre 44.000. Siamo la prima università italiana, secondo i ranking internazionali, per presenza di aziende nei nostri campus e siamo costantemente ai primi posti nella employers reputation. In sei anni gli studenti internazionali sono cresciuti del 59% e i double degree attivati sono 24. Nell’anno trascorso abbiamo raccolto finanziamenti alla ricerca per oltre 33 milioni di euro e sostenuto la ricerca con fondi propri per oltre 4 milioni di euro. Intenso, infine l’impegno nel sostegno agli studenti: l’Università cattolica eroga complessivamente 25 milioni di euro ogni anno a beneficio di quasi 10.000 studenti, supplendo anche all’insufficienza delle risorse pubbliche.
8. Le fonti di sostentamento. La libertà imperfetta di un Ateneo non statale
Tutto questo, e molto altro, si fa impiegando risorse dell’Ateneo. Le fonti di quelle risorse meritano un cenno, per rappresentare un’importante evoluzione. L’Università Cattolica è nata grazie a generosi benefattori ed è stata in principio sostenuta soprattutto dalle offerte dei cattolici italiani: una partecipazione corale ai bisogni di un ateneo che sentivano loro, parte della Chiesa. Alla fine degli anni ’60 le risorse raccolte dalla Giornata per l’Università Cattolica, pensata e sviluppata dall’infaticabile determinazione di Armida Barelli, raggiungevano un importo pari alla metà del costo delle retribuzioni dei docenti; il contributo pubblico copriva la restante metà. Oggi l’Ateneo è sorretto dai contributi degli studenti. È un dato importante, perché significa che l’Università vive grazie alla propria capacità di elaborare un’offerta formativa e offrire servizi che meritano un investimento da parte degli studenti e delle loro famiglie.
Ciò ha un duplice significato: costituisce un decisivo fattore di libertà dell’Ateneo, che ha conquistato una – pur faticosa – autonomia dal punto di vista economico; e attesta che questa università appartiene nel senso più pieno a coloro che in essa insegnano e lavorano e agli studenti che la frequentano.
È però una libertà imperfetta, perché la Cattolica si colloca in un ambito di tutela costituzionale – che rilascia titoli di studio aventi valore legale ed è assoggettata al regime pubblico di accreditamento e verifica (e a questo riguardo mi rallegro per la valutazione “pienamente soddisfacente” conseguita all’esito della recente verifica dell’Anvur) – soffre a causa di una sua natura “privata”, di plurime restrizione e, in particolare, viene esclusa da bandi competitivi che dovrebbero avere la qualità della ricerca e della didattica quale unico criterio di selezione. Una simile situazione, che non è mai esistita o è stata superata nella maggior parte dei Paesi europei, è frutto dell’appiattimento su schematismi giuridici ormai inattuali.
Quel che è più grave è che anche nei provvedimenti di attuazione del PNRR si stanno riproponendo i medesimi problemi, che davvero si spera vengano, in questa che dovrebbe essere una stagione di rinnovamento, apertura e stimolo alla ricerca, finalmente superati.