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La fiducia, da moneta rara a nuovo modello economico

27 marzo 2025

La fiducia, da moneta rara a nuovo modello economico

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Un paradigma economico che sta mostrando tutte le sue crepe non solo perché ha fatto della massimizzazione del profitto l’unico modello di riferimento, ma perché, mettendo al centro delle relazioni economiche la competizione, ha finito per rendere la fiducia un bene scarso. O, meglio, una “moneta rara”, per riprendere la bella immagine che ha dato il titolo al dialogo tra Ivana Pais, docente di Sociologia economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, e Luigino Bruni, docente di Economia politica all’Università Lumsa di Roma, ospitato giovedì 20 marzo al Museo Diocesano, sempre nell’ambito del ricco palinsesto di Soul-Festival di Spiritualità che si è tenuto a Milano dal 19 al 23 marzo. Un «contesto economico», fatto di indifferenza e mosso dall’interesse del singolo, che ha finito per «plasmare l’esperienza tutta degli uomini, incidendo persino sulla qualità dei rapporti umani», ha osservato Aurelio Mottola, tra i curatori del Festival, nella sua introduzione al dibattito. E di qui allora il primo nodo da sciogliere: è ancora immaginabile un modello economico alternativo, improntato alla logica della fiducia e del dono?

Un articolo di

Katia Biondi

Katia Biondi

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Il primo a sbrogliare la matassa è stato Luigino Bruni, partendo dall’assunto che la «fiducia è un bene relazionale», che rimanda a un grappolo di concetti variegati. L’etimologia stessa della parola, con i suoi molteplici significati, ne esprime perfettamente la natura: il termine latino fides vuol dire fede religiosa, fiducia, affidabilità, ma anche corda se facciamo riferimento alla sua antica radice greca. Quindi, è qualcosa che lega le persone, è un rapporto e, pertanto, ha una «dimensione vulnerabile», dovuta all’incapacità di controllare la risposta dell’altro. Nel corso del tempo, per superare questa vulnerabilità si è cercato di rendere le relazioni più oggettive e interpersonali, trasformando così tutti quei patti che hanno fatto la storia della civiltà umana - si pensi all’alleanza biblica tra Dio e il popolo - in contratti. «Un mondo di soli contratti, nel quale il rapporto io-tu si trasforma in quello io-esso, è l’utopia del mercato, poiché si basa su un meccanismo di interazioni che tiene fuori le componenti di fragilità». Ora, la tendenza a non dipendere dalle virtù degli altri si vede chiaramente nel passaggio dalla figura dell’imprenditore a quella del manager. Una tendenza che negli ultimi anni è stata soppiantata da un’altra importante trasformazione in atto, ossia il passaggio dal manager al consulente. «Di fronte alla fragilità delle persone, alla difficoltà di vivere in un mondo post-patriarcale, le imprese, avendo capito quanto sia complicato amministrare lavoratrici e lavoratori giovani, hanno deciso di appaltare esternamente la gestione delle emozioni». Ecco allora che in un’epoca caratterizzata da profonda sfiducia, forse, la soluzione potrebbe trovarsi nel reinventare o immaginare quelle che Bruni ha denominato nuove forme di «fiducie collettive» cui affidarsi per diventare “imprenditori di sogni” e “non amministratori di paure”, per evocare le parole pronunciate a Lisbona nel 2023 da Papa Francesco.

Certo, qualche tentativo di realizzare modelli economici alternativi c’è stato. Lo ha ricordato Ivana Pais che, facendo riferimento all’avventura della sharing economy, ha ripercorso il significato simbolico dell’esempio con cui i suoi sostenitori la presentavano al grande pubblico: perché ogni condomino dovrebbe acquistare un trapano elettrico quando ne basterebbe uno solo, da utilizzare a turno, per tutto il condominio? In realtà, ha spiegato Pais, «questa immagine evocativa raccontava due modelli economici: quello della sostenibilità ambientale e quello relazionale». La sharing economy è stata una proposta di «risocializzazione dell’economia» che, per un certo periodo, ha avuto anche un forte richiamo per via del desiderio di «radicare gli scambi economici nelle relazioni personali». Poi, però, qualcosa non ha funzionato. Le aziende che proponevano queste logiche economiche o hanno cambiato modello, oppure sono fallite. I modelli rimasti ne hanno incorporato alcune caratteristiche, tra cui i sistemi reputazionali che, basati sugli algoritmi, muovono da meccanismi completamente diversi dalla fiducia personale e sono oggi divenuti pervasivi. Fenomeni come quelli della sharing economy, tuttavia, diventano fondamentali per comprendere meglio alcune tendenze che oggi si verificano nel digitale. Il primo aspetto riguarda le dinamiche di «interazione», di «socievolezza» che nel vivere quotidiano si sono perse. Per esempio, pur in un meccanismo di assoluta autoselezione, le piattaforme di condivisione hanno il grande valore di aprire a esperienze diverse. L’altro aspetto fa riferimento al sorgere di «comunità chiuse», costituite da persone che si assomigliano e si rafforzano a vicenda. Ebbene, in futuro, ha osservato la professoressa Pais, il «potenziale del digitale» potrebbe essere proprio nel mettere in contatto comunità diverse che, se unite, possono raggiungere ottimi risultati su più fronti. Lo hanno ben testimoniato i grandi risultati raggiunti da alcune campagne di crowdfunding nate durante la pandemia.

Ma se l’«ibridazione tra comunità chiuse» potrebbe essere una delle strade percorribili, l’altra via suggerita dall’economista Bruni è provare a riformare un’«etica delle virtù», da contrapporsi alla pura logica del business che sta riducendo la capacità dei giovani di credere in una fiducia priva di incentivi. E la scuola, con tutte le sue implicite potenzialità, potrebbe rappresentare il luogo ideale per rimetterla in circolo.

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