Web reportage | GLASGOW, 31 OTTOBRE - 12 NOVEMBRE 2021

Cop26, sul clima buone intenzioni e cattivi presagi

29 ottobre 2021

Cop26, sul clima buone intenzioni e cattivi presagi

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«Nei giorni della Cop26 siamo sulla buona strada per la catastrofe climatica». Suonano come un campanello d’allarme le parole del presidente delle Nazioni Unite Antonio Guterres, dopo che l’Onu ha avvisato che gli impegni presi per la riduzione dei gas serra nei prossimi dieci anni produrranno un aumento delle temperature medie di 2,7 gradi a fine secolo e di 2,2 considerando gli impegni a raggiungere lo “zero netto” entro il 2050. Significherebbe dare ragione alle accuse di inconcludenza lanciate da Greta Thunberg e mancare il primo degli obiettivi che la Conferenza delle parti - che impegna le 197 nazioni appartenenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – intende assumere per azzerare le emissioni nette a livello globale entro la metà del secolo e puntare a limitare l’aumento delle temperature a 1,5 gradi.

A Glasgow, dal 31 ottobre al 12 novembre, 120 leader mondiali hanno confermato la loro presenza alla ventiseiesima edizione della Cop, anche se mancheranno i capi di Stato del primo (Cina), del quinto (Russia) e forse del quarto (Giappone) maggior inquinatore al mondo in termini di emissioni di CO2. E con l’assenza, ben più notevole, del Brasile. Ma col nuovo atteggiamento, dopo lo strappo di Donald Trump, degli Stati Uniti dell’amministrazione Biden.

All’ordine del giorno, oltre al taglio delle emissioni, altri tre obiettivi legati al sostegno dei Paesi più colpiti dal cambiamento climatico al fine di invertire la rotta, al reperimento delle risorse economiche necessarie per raggiungerli e alla ricerca di una collaborazione planetaria per realizzarli. Uno scenario plausibile?

Un articolo di

Paolo Ferrari, Antonella Olivari e Sabrina Cliti

Paolo Ferrari, Antonella Olivari e Sabrina Cliti

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«Le previsioni non sono molto positive» afferma con un certo realismo il professor Roberto Zoboli, delegato del rettore alla ricerca scientifica e alla sostenibilità e direttore dell’Alta scuola per l’Ambiente (ASA). «A fronte degli impegni dell’Unione europea di ridurre del 55% le emissioni entro il 2030 e di avere neutralità carbonica entro il 2050, e degli obiettivi abbastanza ambiziosi degli Stati Uniti, non è chiaro che cosa intenda fare la Cina. Potrebbe esserci qualche annuncio a sorpresa durante Cop26 su un anticipo del picco di emissioni al 2025 invece che al 2030 ma il punto centrale è che i cinesi non sembrano intenzionati a rinunciare al carbone e questo rende poco realistici gli impegni».

Il problema è che «la Cina, da sola, vale il 28% delle emissioni totali di CO2 e l’India è il terzo maggior produttore se non si considera l’Ue come blocco» fa notare il professor Zoboli. «La somma degli impegni unilaterali presi dai Paesi nell’ambito delle Cop non porta certamente a 1,5 gradi ma neppure a due gradi. Molte incertezze pesano sul successo di Glasgow».

Un giudizio che abbiamo chiesto di estendere ai singoli obiettivi di Cop26 ad alcuni coordinatori di progetti di ricerca internazionali e d’ateneo sul tema del clima, della riduzione della CO2 e della sostenibilità. Una sensibilità coltivata da molti anni in Università Cattolica, sia con gli studi sull’adattamento per contenere i danni del cambiamento climatico dell’ASA, con sede a Brescia, dove il Dipartimento di Matematica e fisica studia gli impatti dell’ozono sulla vegetazione e sul sistema climatico; sia con le innumerevoli ricerche della Facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali del campus di Piacenza-Cremona, dove si studiano l’evoluzione delle più sofisticate tecniche di produzione agricola, così come quelle della più moderna trasformazione industriale, con la massima cura dei principi della sostenibilità e della responsabilità nei confronti dell’ambiente. E, più recentemente, con i progetti d’ateneo che si occupano di inclusione del rischio climatico nelle scelte finanziarie e di finanziamento, e di behavioural change in chiave di sostenibilità anche in relazione al clima.

Obiettivo 1 - Azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050 e puntare a limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C

«Arriviamo alla Cop26 con una proposta dell’Unione europea ambiziosa: alzare del 55% l’abbattimento delle emissioni rispetto al 1990». Obiettivo ambizioso ma necessario secondo Giacomo Gerosa, docente di Fisica dell’atmosfera della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università Cattolica. «La mia sensazione è che faremo fatica a raggiungerlo. Tra gli obiettivi di Europa 2020 c’era la riduzione delle emissioni di gas serra del 20% rispetto al 1990. Un risultato conseguito a malapena solo grazie al lockdown strettissimo dello scorso anno. Aggiungere una riduzione ulteriore del 35% entro il 2030 è davvero difficile da immaginare».

Il professor Gerosa, con i colleghi del dipartimento di Matematica e fisica della sede di Brescia, studia da anni gli impatti dell’ozono sulla vegetazione e sul sistema climatico. Prima con i due progetti europei Manfred e Eclaire e ora con BB-CLEAN, un Interreg Alpine Space, appena concluso, che ha messo a punto dei sistemi di tipo tecnologico, informatico e normativo per rendere la combustione delle biomasse più sostenibile ai fini del riscaldamento domestico. Nella riserva forestale di Bosco Fontana (Mn) è attiva, inoltre, una torre micrometereologica, un maxi termometro che misura il respiro della foresta padana, un sito unico al mondo che monitora i flussi di ozono su latifoglie decidue.

Secondo il fisico della sede bresciana, sulle risposte ai cambiamenti climatici si è perso troppo tempo. «Il primo allarme fu lanciato nella conferenza di Rio del 1992, poi non si è fatto nulla fino al protocollo di Tokyo nel 1997, a sua volta fallito. Grandi dichiarazioni mentre le emissioni sono continuate ad aumentare. Verrebbe voglia di dare ragione a Greta Thunberg. Anche se non è vero che non si sia fatto nulla: l’impegno europeo sul taglio delle emissioni è chiaro e l’Europa si propone di raggiungere la neutralità climatica nel 2050». Un obiettivo difficile, perché «dovremmo aver già convertito tutta la nostra economia su energie rinnovabili. Il nostro Paese, in particolare, è rimasto indietro sul fotovoltaico ma sta lavorando bene sull’efficienza energetica».

 

Il problema è che gli Stati fanno fatica ad aggredire le emissioni carboniche perché vanno a intaccare l’economia e la capacità di sviluppo. «L’Europa, almeno, ha preso molti impegni ma gli Stati Uniti non hanno fatto nulla». E la Cina? «È il massimo emettitore mondiale di gas serra ma se decidesse di intervenire potrebbe ridurli perché ha un’economia centralizzata, con piani quinquennali».

Che cosa dobbiamo attenderci, quindi, da Glasgow? «È un appuntamento importante ma conviene essere più realisti. Sarà durissimo riuscire a contenere il riscaldamento entro un grado e mezzo per la fine del secolo, obiettivo che si allontana dalla nostra capacità di raggiungerlo. Forse riusciremo a contenere l’aumento fino a due, due gradi e mezzo. Vuol dire che dobbiamo cambiare prospettiva sia economica che energetica e sociale. Se non facciamo niente arriveremo entro fine secolo a un aumento di quattro gradi e mezzo con conseguenze disastrose per l’ecosistema».

«C'è un crescente consenso sul fatto che non sarà possibile contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali senza trasformare i sistemi alimentari e i settori correlati, poiché i sistemi alimentari rappresentano più di un terzo delle emissioni globali e l’agricoltura e il connesso cambiamento d’uso del suolo contribuiscono a quasi il 20% delle emissioni. L’intero sistema è chiamato, dunque, al miglioramento rivolto alla riduzione delle emissioni» puntualizza la professoressa Lucrezia Lamastra, docente di chimica agraria della facoltà di Scienze agrarie alimentari e ambientali.

«Dal 2010 - spiega - l’area chimica del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari per una filiera agro-alimentare Sostenibile (DiSTAS) è coinvolta in progetti di ricerca rivolti ad aumentare la sostenibilità della filiera agroalimentare, basati sulla misurazione delle prestazioni di sostenibilità, perché solo a partire dalla misura è possibile individuare efficaci strategie di mitigazione degli impatti. Nell’ambito del progetto Life TTGG, ad esempio, l’applicazione della metodologia europea Product Environmental Footprint (PEF) e delle specifiche Category Rules (PEFCR) nel settore lattiero caseario ha permesso di calcolare la potenziale riduzione delle emissioni di GHG a seguito dell’adozione di misure di mitigazione nella fase di stalla. Queste si sono rivelate efficaci portando ad una riduzione pari a circa il 22% delle emissioni totali di CO2eq».

Un altro esempio guarda al settore vitivinicolo: «Grazie al progetto VIVA  - prosegue Lamastra - si è calcolato che alcune misure di mitigazione come l’installazione dei pannelli fotovoltaici, l’adozione di bottiglie più leggere e l’acquisto di nuovi mezzi agricoli,  possono contribuire alla riduzione delle emissioni di gas climalteranti, di circa l'8%.  Il valore di riferimento per il vino italiano è stimato a 1.882 kg CO2eq./bottiglia da 0.75 l di vino».

Obiettivo 2 - Adattarsi per la salvaguardia delle comunità e degli habitat naturali


I sistemi alimentari dell’attuale società umana sembrano causare il 20-30% delle emissioni di gas serra responsabili dei cambiamenti climatici e il 70-75% del consumo di acqua, attraverso l’utilizzo di più del 50% della superficie terrestre potenzialmente sottratta al bene comune. Le evidenze geo-politiche, ambientali e sanitarie degli ultimi anni testimoniano a chiare lettere la necessità di agire con urgenza perché le variazioni climatiche aumentano le nostre ‘impronte’ a causa di un effetto dirompente sui servizi ecosistemici.

«Non è una bella fotografia di quello che sta succedendo. L’emergenza è chiara e osservabile tutti i giorni, sperimentando giornate di caldo soffocante, di grandinate violente, di alluvioni invasive e letali. È evidente che i cambiamenti climatici accentuano i disservizi, creando un’emergenza che richiede a gran voce soluzioni operative di gestione delle risorse degli ecosistemi, habitat dell’uomo e di tutti gli organismi viventi»  afferma il professor Ettore Capri, direttore dell’Osservatorio europeo per l’agricoltura sostenibile OPERA e coordinatore di RESILIENTE , progetto di interesse d’Ateneo che ambisce allo sviluppo di migliori pratiche, indicatori e buone politiche a supporto della preservazione dei servizi ecosistemici, mitigando gli effetti negativi dovuti ai cambiamenti climatici.
 


«Attenzione però che anche le variazioni climatiche possono giocare a nostro favore per originare nuovi cambiamenti e opportunità nella relazione uomo-natura. Transizione ecologica e resilienza sono quindi un imperativo, mitigare e coltivare con cura altrettanto. L’agricoltura o, meglio, la ricerca in agricoltura può aiutare molto nella scelta di direzioni operative corrette attraverso tecnologie adeguate a permettere l’adattamento ai cambiamenti» sottolinea il professor Capri che ricorda come siano «centinaia i progetti svolti in Università Cattolica in campo agronomico, zootecnico, chimico e genetico che negli ultimi anni hanno fornito risultati concreti per ridurre».

La ricerca dell’Università dimostra che l’adozione di buone pratiche agricole può ridurre fino al 50% le emissioni di gas serra (N2O e CO2) grazie alla riduzione dei consumi e alle pratiche di coltivazione «le piante stesse possono permettere al suolo di accumulare la CO2 in vere e proprie riserve gestibili in processi di produzione di energie rinnovabili. Le ricerche dimostrano che l’agricoltore può essere non solo giacimento di risorse, ma anche centrale di produzione delle energie del futuro, attraverso il recupero dei rifiuti e di tutti i residui di biomasse agro-alimentari». La facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali esprime una ricerca 4.0, digitale ed informatizzata: «è dal nostro ateneo che sono nati e si sono sviluppati l’agro-fotovoltaico, che produce cibo ed insieme energia elettrica dalla luce del sole; i sistemi informatici DSS, che indirizzano gli agricoltori a realizzare le buone pratiche agricole; senza dimenticare gli standard di sostenibilità ossia le linee guida procedurali per raggiungere l’obbiettivo 1 e 2 della COP26».

 


Fra le tante criticità da ricondurre agli scenari di cambiamento climatico e al possibile intensificarsi di frequenza e intensità di eventi meteorologici estremi, vi sono anche quelle legate alla tutela e alla salvaguardia dei beni culturali.

L’Italia ospita un patrimonio culturale ricchissimo e capillarmente diffuso sul territorio che, oltre a rappresentare un rilevante elemento di attrattività turistica, costituisce anche parte fondante del paesaggio e dell’identità delle nostre comunità di territorio. Larga parte di questo patrimonio è severamente esposto a pericoli naturali correlati al clima come alluvioni, allagamenti urbani, dissesti idrogeologici, valanghe o incendi boschivi.

Mentre esistono schemi operativi efficaci e consolidati per la messa in sicurezza dei beni culturali in fase di superamento dell’emergenza (è giusto citare, a titolo di esempio, le attività coordinate da Ministero della Cultura e Dipartimento Nazionale della Protezione Civile a valle degli ultimi eventi sismici in centro Italia), molto c’è ancora da fare sul fronte della prevenzione e dello sviluppo di strumenti di pianificazione che consentano di gestire scenari di rischio che, pur prevedibili, richiedono di implementare in tempi brevi interventi di salvaguardia del patrimonio culturale (si pensi alle allerte che preannunciano possibili esondazioni di fiumi e torrenti o a un fronte di fiamma che si avvicina rapidamente a un’area urbanizzata).

«È proprio questo – spiega Stefano Oliveri, coordinatore del gruppo di lavoro di Università Cattolica ed Ecometrics srl insieme al responsabile scientifico, professor Stefano Pareglio - il tema su cui, nel corso dell’ultimo triennio, abbiamo lavorato nell’ambito del progetto CHEERS. Finanziato dal programma europeo Alpine Space, il progetto ha lavorato sul tema della tutela e messa in sicurezza dei Beni Culturali esposti a hazard naturali ed è stato prevalentemente orientato alle attività di pianificazione e prevenzione, elemento che lo ha fortemente distinto rispetto ad altre iniziative simili. Favorendo una stretta collaborazione fra Protezione Civile e gestori di Beni e Siti Culturali, CHEERS ha inteso creare le condizioni utili a garantire una maggiore capacità di risposta per la salvaguardia del patrimonio culturale in eventuali stati di allerta o emergenza».

«Il progetto – aggiungono Marco Pregnolato e Barbara Caranza, membri del gruppo di lavoro di Università Cattolica - ha riunito partner da paesi europei dell’arco alpino (Italia, Francia, Slovenia, Austria, Germania e Svizzera). Per ciascun paese è stata presa in esame un’area pilota. Come gruppo di lavoro di Università Cattolica e con il supporto tecnico di Ecometrics srl, in particolare, abbiamo lavorato sul caso di studio dell'esondazione del Fiume Adige (Città di Trento), in collaborazione con la Provincia Autonoma di Trento (Dipartimento della Protezione Civile e Soprintendenza per i Beni Culturali)».

«Lo scopo dell'attività – ha sottolineato Franco Marzatico, Soprintendente per i Beni Culturali della Provincia Autonoma di Trento, Ente che ha partecipato al progetto con il ruolo di osservatore - è consistito non solo nell'individuare i siti più esposti al rischio di esondazione del fiume Adige, ma anche nel costruire un metodo di valutazione speditiva delle priorità di intervento, di definizione delle azioni di mitigazione degli effetti di danno, di quantificazione di tempi e risorse necessari. Il tutto per mettere a disposizione di decisori e portatori di interesse un modello di analisi e pianificazione che ci si augura possa essere utilmente sviluppato in futuro, in Trentino e non solo».

Obiettivo 3 - Mobilitare i finanziamenti


Il finanziamento della transizione ecologica sarà uno degli elementi decisivi per realizzare il processo di contrasto al cambiamento climatico. «Si stima che in Europa servano 500 miliardi di euro per finanziare gli obiettivi di cambiamento climatico. Non bastano quindi le risorse pubbliche, servono le risorse private» puntualizza il professor Francesco Timpano, docente di Politica economica della Facoltà di Economia e Giurisprudenza. «Il sistema bancario mondiale ha finanziato con 3.260 miliardi le produzioni di energie da fonti fossili negli ultimi cinque anni. Nel Laboratorio Next Generation EU stiamo monitorando il percorso che porterà a circa 80 miliardi di investimento ad impatto sul cambiamento climatico in Europa. La finanza pubblica sta quindi giocando la sua partita, nonostante le difficoltà provocate dalla crisi pandemica. 

A partire dal 2018, la Commissione Europea ha avviato un processo importante con l’Action Plan per la Finanza sostenibile e sta modificando radicalmente la regolamentazione dei mercati finanziari (da quello dei capitali al credito bancario) e gli obblighi di reporting delle imprese al loro comportamento sugli obiettivi ambientali e sociali della sostenibilità. «Questo cambiamento della regolazione europea sta modificando profondamente il mercato ed in questo momento l’effetto più forte sulle imprese è determinato dall’introduzione della Tassonomia sulle attività economiche sostenibili che sarà uno spartiacque decisivo per il futuro del nostro sistema economico». In sintesi, l’obiettivo è quello di abbandonare i settori chiaramente non sostenibili, facendo venire meno il supporto della finanza privata e pubblica.

«Si tratta di un cambiamento profondo del sistema finanziario, che in parte il mercato sta già determinando se si pensa che i fondi di investimento ESG sono passati da 400 miliardi di dollari nel 2010 a 1300 miliardi in area Euro. In Italia i fondi che seguono strategie sostenibili sono passati da pochi milioni di euro di patrimonio nel 2014 a circa 500 milioni di euro nel 2020». 

Sulla necessità di definire rapidamente il quadro della tassonomia ambientale e di accelerare sulla tassonomia sociale, di porre attenzione alle politiche di accompagnamento della transizione e sul ruolo fondamentale che la regolazione bancaria avrà nel futuro per estendere ai clienti retail le opportunità della finanza sostenibile il professor Timpano, che è anche coordinatore del Gruppo di Lavoro sulla Finanza Sostenibile di ASVIS-Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, ha contribuito nella redazione del Rapporto ASVIS 2021 nella sezione dedicata a questi temi.

Obiettivo 4 - Collaborare. Solo lavorando tutti assieme potremo affrontare le sfide della crisi climatica


Le sfide ambientali, economiche e sociali attuali richiedono una profonda riconfigurazione dei processi produttivi, che devono diventare sempre più rispettosi dell’ambiente e sostenibili, ma suggeriscono anche la necessità di operare ad una capillare educazione dei consumatori a comportamenti di consumo responsabili e sostenibili.

Oggi il consumatore è una risorsa chiave per lo sviluppo sostenibile del settore produttivo, ma risulta difficile da coinvolgere e prevedere nei suoi comportamenti di consumo, apparentemente sempre più mutevoli e contradittori. La professoressa Guendalina Graffigna, docente di Psicologia della salute e dei consumi e direttore del Centro di ricerca EngageMinds HUB evidenzia come «tra le altre cose, i consumatori risultano oggi ancora lontani dalla piena consapevolezza del loro ruolo nella filiera produttiva e nel sistema economico: sebbene essi si dichiarino preoccupati per l’impatto ambientale dei sistemi produttivi e per la riduzione delle risorse naturali, sul piano delle pratiche quotidiane di consumo sono ancora poco inclini alla concreta adozione di strategie e comportamenti di consumo sostenibili».

Da un recente monitoraggio condotto da EngageMinds HUB sugli orientamenti verso la sostenibilità della filiera agro-alimentare condotto su un panel di mille consumatori italiani e su circa cento opinion leaders, emerge come il 39% dei consumatori economicamente più abbienti e con un livello di istruzione (“elites”) più elevato abbiano rinunciato ad acquistare prodotti alimentari di fronte alla considerazione che non rispondessero a criteri di sostenibilità; ovvero in misura sensibilmente maggiore della media dei consumatori italiani a dicembre del 2020 (33%). E andando più in profondità, dall’analisi emerge che il 53% delle persone appartenenti all’élite ritiene importante che un alimento venga prodotto rispettando l’ambiente; mentre il 47% sottolinea la rilevanza che l’attività zootecnica avvenga rispettando le norme sul benessere animale. Queste stesse domande, poste agli opinion leader portano a risultati eclatanti, visto che le percentuali arrivano rispettivamente all’83% e al 78%.

«Nelle rappresentazioni dei consumatori - commenta Graffigna - la sostenibilità degli alimenti si gioca in particolare in termini di impatto ambientale e di benessere animale, aspetti ancora più focalizzati da élites e opinion leaders. Ma l’aspetto che va soprattutto sottolineato, è che tra coloro che più di altri, nella società, possono rappresentare un punto di riferimento culturale inizia a farsi strada una visione del concetto di sostenibilità articolata negli aspetti sociali ed economici oltre che ai “tradizionali” fattori ambientali». In ogni caso emerge chiaramente come il coinvolgimento attivo dei consumatori nella filiera agro-alimentare sia fondamentale al fine di favorire condotte di consumo e di gestione delle risorse ambientali sempre più sostenibili ed adeguate.

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