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Brasile, l’assalto al Parlamento simbolo di un Paese spaccato in due

13 gennaio 2023

Brasile, l’assalto al Parlamento simbolo di un Paese spaccato in due

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Oltre 1500 arresti, un governatore rimosso e l’ombra della complicità della polizia. È questo il bilancio dell’assalto al Parlamento in Brasile dello scorso 8 gennaio. Migliaia di persone hanno preso d’assalto il simbolo della democrazia, per contestare l’insediamento del nuovo presidente Lula. La comunità internazionale si interroga su che responsabilità abbia il presidente uscente Bolsonaro, che nega ogni accusa di coinvolgimento. Mentre la magistratura promette chiarezza e Lula “punizioni esemplari”, il paese è spaccato in due. Samuele Mazzolini, ricercatore presso l'Università Ca' Foscari di Venezia e collaboratore del Centro di Ricerca Polidemos del nostro Ateneo, spiega che si tratta di «un evento molto forte a livello simbolico: sono coinvolte le stesse istituzioni collegate al processo di democratizzazione brasiliana».

Le immagini mostrano l’assalto al parlamento brasiliano, ma cosa è accaduto esattamente?
«In primo luogo, è stato un attacco materiale da parte di diverse centinaia di manifestanti appartenenti alla galassia del bolsonarismo nei confronti dei tre poteri dello Stato, che a Brasilia sono condensati nello stesso luogo. L’azione, però, è molto forte anche a livello simbolico, perché le stesse istituzioni sono collegate a quel processo di democratizzazione del Brasile iniziato nel 1985 e consolidatosi tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta».

Quali sono le radici più profonde dello scontro?
«All’inizio dello scorso decennio, in diversi Paesi – pensiamo alle varie “primavere” – sono scoppiate delle rivolte che hanno avuto degli sbocchi, più o meno di successo, che si sono incanalati a sinistra. In Brasile, invece, le proteste del giugno 2013 hanno trovato una risposta nella destra, che è riuscita a farsi carico delle inquietudini e delle ansie della popolazione. In questa narrazione, il PT (Partito dei Lavoratori, ndr) di Lula, allora guidato da Dilma Rousseff, rappresenterebbe la casta fossilizzata e la percezione di distanza tra il partito e la popolazione c’è ancora oggi».

Quanto ha influito il comportamento di Bolsonaro dopo la sconfitta alle elezioni?
«Il fatto che Bolsonaro non abbia riconosciuto come legittima l’elezione di Lula è stato uno sprone: nel momento in cui parli di brogli e ritieni di avere subito un torto, seppure senza uno straccio di prova, stai incoraggiando i tuoi sostenitori a prendere le piazze; è altrettanto vero, però, che nelle ultime settimane Bolsonaro sia rimasto in disparte, in Florida, piuttosto silenzioso. Questo ci dice, intanto, dei timori dell’ex presidente riguardo alla possibilità che lui e i suoi figli possano essere arrestati».

E cos’altro ci dice, per esempio dal punto di vista politico?
«Il corso degli eventi ci parla di un aggregato bolsonarista dove non esistono delle gerarchie molto collaudate: ne fanno parte tenenti di mondo di mezzo e influencer di ogni risma che si fanno latori del messaggio di Bolsonaro, per giunta radicalizzandolo. Tutto ciò, poi, non ha trovato eco né in Bolsonaro, che ha opportunamente preso le distanze, né in qualche altro suo rappresentante istituzionale. Nessuno si è voluto fare carico di quello che è successo: questo la dice lunga su quella che è la galassia disarticolata, ma altrettanto pericolosa, del bolsonarismo».

Alla memoria torna l’assalto a Capitol Hill due anni fa negli Stati Uniti: quali le differenze?
«L’episodio di Capitol Hill è stato più imprevisto, mentre in Brasile diversi commentatori avevano già suggerito la possibilità che quanto avvenuto potesse effettivamente verificarsi: da diverse settimane, infatti, centinaia di manifestanti si erano accampati proprio in corrispondenza delle caserme militari, invocando un intervento armato dei soldati. E questa è un’altra differenza importante: se negli Stati Uniti non si è mai nemmeno pensato che l’esercito potesse portare a sommo compimento i propositi dei contestatori, in Brasile tale volontà esisteva. Tuttavia, gli interventi sono stati effettuati in maniera energica e pulita, tanto da non causare alcuna vittima, in confronto ai cinque morti di Capitol Hill».

Le forze di Polizia brasiliane sono state accusate di complicità. Si può davvero parlare di una loro responsabilità?
«Sicuramente ci sono delle forti simpatie, soprattutto nei piani intermedi; inoltre, tra le forze di sicurezza dello Stato dove si colloca Brasilia c’è stata una certa indulgenza. Quello che fa scalpore è la lentezza con cui sia mosso l’intelligence, o meglio la sua incapacità di prevedere quanto avvenuto, dal momento che diversi analisti avevano già previsto che l’assalto potesse accadere, dato che la situazione si stava surriscaldando».

Dunque, gestire un Paese del genere per Lula sarà complesso, almeno nel breve periodo.
«Sì, non sarà assolutamente facile per due ragioni. Innanzitutto, pur avendo vinto le elezioni, il risultato era stato molto stretto e quindi la popolazione è effettivamente spaccata in due. Dal punto di vista della governabilità nei prossimi anni, per Lula sarà dura anche dal punto di vista delle alleanze parlamentari, nel senso che i numeri in parlamento sono instabili e con diversi governatori federali molto fedeli a Bolsonaro. C’è quindi un problema di collaborazione istituzionale a più livelli: sia nel rapporto con i governatori stessi, sia per fare passare le leggi che Lula vorrà emanare».

Se l’attacco al Parlamento è la replica di Capitol Hill, dobbiamo aspettarci che possa accadere ancora in altre parti del mondo?
«Sono due precedenti molto pericolosi che rischiano di attirare emulazione: il caso brasiliano è un tentativo di replicare esattamente quella formula. È anche vero, però, che all’interno del populismo di destra, Trump e Bolsonaro sono i personaggi che più hanno flirtato con una serie di consegne apertamente antidemocratiche. Non voglio dire che gli altri siano del tutto impegnati nella democratizzazione delle istituzioni; tuttavia, mi pare difficile pensare, almeno nel contesto europeo, che un domani i leader politici possano spingere i propri sostenitori affinché intraprendano la stessa strada».

 


Photo by Marcelo Camargo / Agência Brasil | (CC BY 4.0)

Un articolo di

Matteo Galiè e Giorgio Colombo

Scuola di giornalismo

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