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Capire è il primo passo per curare

24 gennaio 2022

Capire è il primo passo per curare

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Eminenza Reverendissima,

Signora Ministra,

Signor Commissario Europeo per gli affari economici e monetari on. Paolo Gentiloni

Signor Presidente della Regione Lazio, e autorità civili, religiose militari,

Magnifici Rettori,

Chiarissimi Prorettori, Presidi e Delegati Rettorali,

Illustri componenti dei Consigli di Amministrazione dell’Ateneo, dell’Istituto Toniolo di Studi Superiori e della Fondazione Policlinico Gemelli IRCSS

Illustri Direttore generale dell’Ateneo e Direttore Generale della Fondazione Policlinico Gemelli

Chiarissimi Professori (e cari colleghi), stimato personale tecnico amministrativo e sanitario,

Carissimi Studenti e Specializzandi

Gentili Signore e Signori,

1.      L'elenco dei saluti è stato un po’ lungo, ma avrei voluto che lo fosse di più; avrei voluto salutare individualmente e per nome ciascuno di voi, per ringraziarvi per la vostra presenza qui oggi.

È confortante poter alzare lo sguardo e vedere questo auditorium gremito di tante persone che si sono unite a noi per una solenne cerimonia alla quale lo scorso anno, proprio in occasione del centesimo anno accademico dell’Ateneo, abbiamo dovuto rinunciare.

È emozionante volgersi e vedere su questo palco schierati i colleghi della Facoltà di Medicina e chirurgia, con le loro toghe bordate di rosso, il colore del sangue, che in questo caso è simbolo della vita e insieme della passione che anima l'attività del medico.

Una passione, una dedizione, uno spirito di appartenenza e sacrificio, uniti a un’elevata competenza scientifica e capacità clinica, di cui è stata data testimonianza in questi mesi da parte delle donne e degli uomini e di questa Sede romana dell’Ateneo e del Policlinico Gemelli. Ho avuto modo di esprimere l'ammirazione e la gratitudine dell'intera università per quanto avete fatto; ho dovuto farlo da lontano, in occasione delle cerimonie inaugurali che si sono tenute nella sede milanese. Oggi posso farlo di persona: ci avete reso tutti orgogliosi. Grazie.

2.      Nel frattempo, mentre ci si prodigava per assicurare non solo le cure, ma anche la continuità delle attività didattiche e di ricerca, è giunto, con discrezione, il sessantesimo anno dalla Fondazione della Facoltà.

Il giorno dell’anniversario, quasi a riscattare l’impossibilità di preparare come è d’uso un calendario di eventi, è stato illuminato da un incontro indimenticabile; quello con il Santo Padre, che lo scorso 5 novembre, accogliendo l'invito che a nome dell'intero Ateneo gli ha rivolto il nostro assistente ecclesiastico generale monsignor Claudio Giuliodori, ha presieduto la celebrazione eucaristica, ricongiungendoci idealmente alla storica giornata del 5 novembre 1961, quando San Giovanni XXIII inaugurò le attività accademiche della Facoltà medica.

3.      Tornare a quella lontana giornata offre lo spunto per rimeditare il mandato originario affidato alla scuola medica della cattolica, per verificare fino a qual punto e in qual modo esso sia stato adempiuto e soprattutto come, ancora oggi, esso costituisca guida del nostro agire.

Il campus di Roma, sappiamo e abbiamo tante volte ripetuto, nacque dall'esigenza fortemente avvertita da Padre Gemelli di formare uomini e donne orientati all'esercizio della scienza e dell'arte medica con la costante consapevolezza che essa non è applicazione di protocolli, ma essenzialmente atto di cura di una persona.

Di una persona che “si affida” al medico. In questo affidarsi non vi è mera passività, ma una precisa volontà di scelta da parte del paziente, ed è perciò un atto fortemente responsabilizzante per colui che ne è destinatario. Su questo tema una figura amata e rimpianta da coloro che hanno vissuto i primi anni di questa sede romana, l'assistente spirituale mons. Alessandro Plotti, scrisse parole dense e forti in una lettera che indirizzò agli studenti in occasione della morte di Padre Gemelli, avvenuta proprio alla vigilia dell'apertura della facoltà di medicina, quando il “sogno” per tanti anni da lui coltivato stava per realizzarsi. Diceva don Plotti, “dovete studiare, intensamente, per non tradire la confidenza che un giorno gli altri metteranno in voi … più tardi questa confidenza si tradurrà in un abbandono totale del malato al dottore. Non si può immaginare cosa in fondo più inumana e incredibile per un uomo di questo abbandono che esso fa della sua persona, integralmente, ad un altro uomo nel quale rimette tutto”.

Un atto quasi contrario all'istinto di conservazione, e in questo senso “inumano”, quello con il quale il paziente si af-fida al medico. Ma a che cosa più precisamente si affida il paziente? Si affida alla scienza del medico, alla sua diligenza, alla sua sensibilità umana.

4. Nei tempi recenti però, alla prova di eventi drammatici, proprio la fiducia nella scienza è stata messa in discussione. È questa probabilmente una delle ricadute più rilevanti della pandemia sul terreno culturale.

Ed è un fenomeno con il quale istituzioni deputate a produrre, e soprattutto a trasmettere, conoscenza, non possono non confrontarsi. Si è ripetuto tante volte che il compito delle università non si riduce a dotare gli allievi di competenze, ma tende alla crescita intellettuale della persona, a sviluppare curiosità, amore per il sapere, capacità di giudizio critico. Proprio su questo terreno si gioca il tema del rapporto tra ricerca scientifica e opinione pubblica, ossia sulla capacità della società intera di comprendere le modalità del prodursi della conoscenza scientifica e il valore dei risultati della ricerca, per valutarne le ricadute e il grado di affidabilità e saperle apprezzare in modo obiettivo e corretto. Non si pretende che ciascuno si faccia specialista in una certa branca del sapere, ovviamente, bensì di essere dotato di quel grado di cultura e di apertura intellettuale che permette di riconoscere il valore delle conoscenze altrui, di rispettarle, ed eventualmente decidere, sulla base di una consapevole valutazione, di affidarsi ad esse.

Ciò, dicevo, non richiede un inverosimile possesso di competenze approfondite nei più disparati rami del sapere e della ricerca, bensì lucida comprensione dei percorsi attraverso i quali la conoscenza si forma.

Proprio questo importantissimo snodo, questo punto di cerniera tra “scienza e società”– per utilizzare un’espressione la cui approssimazione mi sarà perdonata in ragione della sinteticità – sembra essere colpito dal malessere di questi tempi. Si moltiplicano le manifestazioni di avversione e sospetto nei confronti delle posizioni espresse dalle istituzioni scientifiche o che a queste si rifanno, con una ostilità che ampiamente supera i limiti di una giustificata cautela verso qualsiasi enunciazione nuova e non consolidata.

La tentazione della diffidenza, o addirittura della ripulsa, emerge quando la “scienza” esce dall’ambito della speculazione e del dibattito tra iniziati per essere invocata a fondamento, presentato come obiettivo e indiscutibile, di scelte di rilevanza sociale.

I due estremi del dilemma che abbiamo innanzi vengono così a definirsi.

Da una parte la crisi della fiducia nella scienza; dall’altro lato l’indebolirsi dell’autorità delle istituzioni politiche, che talora sono apparse voler rimettere integralmente proprio alla scienza la giustificazione di decisioni che attengono a una diversa dimensione dell’umano, quella delle relazioni sociali e delle regole dell’agire collettivo e individuale.

Due distorsioni che traggono origine da un medesimo errore: dimenticare che la scienza è ricerca, non rivelazione.

Essa offre risposte dipendenti da due ordini di fattori legittimanti: le “evidenze”, i dati di fatto tratti dall’osservazione della realtà, e il metodo. Se l’uno o l’altro sono confutati è posto in dubbio il risultato, l’enunciato finale, che quindi è sempre precario e superabile, come dimostrano le “rivoluzioni” scientifiche occorse tante volte nella storia del progredire della conoscenza umana. La precarietà del sapere scientifico è in realtà la sua forza, perché lo apre al costante aggiornamento.

5.      Riconoscere il sapere scientifico come contingente e condizionato significa apertura alla critica, al dibattito, alla confutazione; non scetticismo aprioristico, immotivato e, proprio in quanto tale, irrazionale. Ed è la premessa per un “uso” consapevole delle indicazioni che provengono dalle scienze, soprattutto quelle della natura, nelle scelte di condotta.

Come è stato scritto: “Dire che una decisione responsabile si deve regolare su un sapere sembra definire allo stesso tempo la condizione di possibilità della responsabilità (non si può prendere una decisione responsabile senza scienza e coscienza, senza sapere ciò che si fa, per quale ragione, in vista di cosa e in quali condizioni), e la condizione di impossibilità di tale responsabilità (se una decisione si conforma a un sapere contentandosi di seguirlo o svilupparlo, non si tratta più di una decisione responsabile, ma della messa in opera tecnica di un dispositivo cognitivo, del semplice dispiegamento meccanico di un teorema)” (Derrida).

Qui entra in gioco, a mio avviso, la funzione culturale e politica delle università. Un ruolo ancora più urgente e impegnativo quando si parla di scienza medica, un contesto nel quale le università si prendono direttamente sulle spalle un intreccio di compiti: coltivare la scienza, e dunque acquisire nuove conoscenze, tradurle in terapie, assistere i malati. Capire è il primo passo del curare. E in tutto questo educare i futuri medici, addestrandoli alle pratiche più avanzate ma anche trasmettendo loro il patrimonio dell’esperienza, e degli errori, del passato. “Descrivere il passato, comprendere il presente, prevedere il futuro: è questo il compito” si legge nel primo libro delle Epidemie del Corpus Hippocraticum.

Ma, come dicevo, oltre a praticare la scienza, nella nostra società – nella quale le autorità sono in crisi, le fonti di informazione plurime, le strutture di validazione delle conoscenze sempre più spesso disconosciute – occorre farla comprendere. Emerge con prepotenza la dimensione sociale della conoscenza scientifica, e dunque si pone con urgenza il problema di comprendere l’essenza e i limiti di quella conoscenza.

 L’aspettativa quasi fideistica in un progresso scientifico e tecnologico capace di ogni risposta che si era consolidata nella stagione del positivismo, accompagnata dalla rivoluzione industriale e da una promessa benessere diffuso nella società, oggi arretra. Da un lato, le ricadute negative dell’industrializzazione ci si mostrano drammaticamente: la natura, abusata da un’umanità che si pensava demiurgo onnipotente presenta il conto, ed è più oneroso di quanto ci si poteva aspettare, perché il problema non consiste più nella contaminazione di singole aree, nel degrado di determinati ambienti, nell’estinzione di talune specie, ma ha innescato un processo di mutamento che si incrementa in modo progressivo e che nessuna specifica tecnologia riesce a contrastare nella sua portata planetaria. Abbiamo pensato che la tecnologia, la causa del degrado, potesse anche essere il rimedio. Ma non è più così: Pharmacon qui sembra significare soltanto veleno.

Per altro aspetto, nella vicenda della pandemia la scienza si è mostrata nel suo farsi; abbiamo gettato lo sguardo dietro la tenda dell’alchimista e visto il suo procedere per tentativi, ipotesi, verifiche e confutazioni. E questo ha minato le certezze al punto che un risultato straordinario, come l’elaborazione di vaccini nel volgere di pochi mesi, è stato da molti accolto con sospetto o ripulsa. Non è certo la prima volta; molti in questi giorni hanno riscoperto la caustica sagacia di Karl Kraus, che nella polemica scoppiata in Austria all’inizio del ‘900 a proposito della vaccinazione contro il vaiolo osservava: “I nemici delle vaccinazioni … hanno detto che a Vienna non è scoppiato il vaiolo, ma un’epidemia da vaccino … ma la loro prudenza è un po’ esagerata: si prendono il vaiolo per proteggersi dal vaccino”.

Non sarebbe appropriato indugiare qui sulle analoghe polemiche dei giorni nostri. È curioso osservare che non sono poi così inedite, e questo getta un’ombra sulla reale capacità degli uomini e delle comunità di apprendere dal passato.

Si deve allora tornare al tema posto all’inizio. Il compito delle istituzioni educative, di alta formazione, nel diffondere una cultura scientifica, nel far comprendere che cosa è la ricerca scientifica, come procede, che cosa ci si può aspettare.

La crisi di fiducia ha due fattori principali: il crescere della complessità delle conoscenze scientifiche, la loro sempre più ardua comunicabilità; e l’equivoco sull’essenza della conoscenza scientifica.

Quanto al primo aspetto non è facile rimediare. L’astrazione, la complessità di certe conoscenze sono tali che non riescono più a tradursi in una spiegazione del mondo che i non iniziati possano comprendere. La fisica classica progrediva grazie a osservazioni accessibili: il genio intuiva, comprendeva, apriva la strada, spiegava fenomeni che tutti vedono; gli altri, noi, potevano capire, o almeno farsi un’idea. Oggi la Torre di Pisa di Galileo, la mela di Newton o la vasca da bagno di Archimede, oggetti così familiari e rassicuranti, non bastano: le matrici di Heisenberg o la funzione d’onda di Schrodinger sono ai più inaccessibili. Attraverso queste rarefatte astrazioni, puramente numeriche, la scienza dice cose sul mondo che non possiamo nemmeno raffigurarci. E così, mentre le premesse teoriche delle macchine che hanno creato la società industriale erano con qualche impegno accessibili la fisica quantistica, che pure è all’origine di alcune avanzate tecnologie in uso è, semplicemente, inconoscibile.

Il secondo aspetto prima indicato, quello della comprensione del metodo scientifico. La pandemia, in breve, ha riaffermato un essenziale bisogno della società contemporanea: la diffusione di conoscenza, e ancor prima di una consapevolezza dei processi di produzione del sapere e della valutazione critica dei risultati, specialmente quando questi costituiscono le premesse del decidere e dell’agire.

Si tratta, per questo aspetto, di riaffermare la dignità del processo di elaborazione della conoscenza scientifica, farlo comprendere, restituire alla scienza il suo autentico statuto, liberandola dalla pretesa di assoluto, alla quale in certi momenti è stata tentata di cedere, mettendo a repentaglio la propria attendibilità. “La scienza – diceva San Giovanni XXIII nel discorso di inaugurazione del primo anno accademico, che ho dianzi ricordato – che si sente serva della verità e non padrona, che non smarrisce mai il senso del mistero”; questa scienza, consapevole che vi è sempre altro da svelare, e che le nuove scoperte potrebbero mettere in discussione le convinzioni precedenti, è la scienza che merita fiducia, alla quale è doveroso dare fiducia, perché, come uomini, non abbiamo altro strumento per confrontarci con la natura.

Fede nella scienza è dunque fede nell’impegno nella ricerca e nell’onestà intellettuale del metodo (quel “rigore scientifico” che, diceva Nietzsche, “terrorizza i non iniziati”; La gaia scienza. E Idilli di Messina, Milano, Adelphi 1977, p. 210-211), nella fatica della prova e della verifica, nell’accettazione della mancanza dell’esito sperato. In questo arduo impegno occorre il sostegno morale della comunità che tanto si attende, e tanto di riceve, dagli studiosi e dagli scienziati.

E ancora ricordo le parole di Karl Kraus, nell’ultimo aforisma di Detti e contraddetti: “Pazienza, voi ricercatori! Il mistero sarà illuminato dalla sua propria luce”.

6.      La vicenda della pandemia ci ha rivelato che non basta “fare” scienza. Illuminare con nuova conoscenza ciò che è rimasto oscuro; occorre farla comprendere, non semplicemente divulgando questo o quel risultato, bensì diffondendo consapevolezza di ciò che è scienza.

Se questo è il compito, è giusto riferire in breve quanto si sta facendo in questo campus romano per assolverlo.

In primo piano si pone l’attività educativa; gli studenti sono non solo i medici, i ricercatori, ma i cittadini di domani. La loro cultura – prima delle competenze tecniche – sarà decisiva per la qualità delle società future.

Anzitutto nella Facoltà di Medicina, con un’attività didattica rivolta a 5.400 studenti, cui si aggiungono gli specializzandi, risorsa preziosa del Policlinico, con le loro energie, entusiasmo e dedizione, sono 1.700. Le matricole di Medicina sono 300, cui si aggiungono 23 del Corso di Medicine and Surgery erogato in lingua inglese. Potremmo accoglierne di più, a fronte delle quasi 9.000 domande ogni anno. La limitazione quantitativa dell’accesso ai corsi è inevitabile, per assicurare la qualità della didattica, ma di fronte al riconosciuto bisogno di professionisti sanitari davvero confido che ci verrà data l’occasione di sfruttare di più una potenzialità formativa che abbiamo, che vorremmo pienamente esprimere.

La Facoltà di Economia con i suoi 138 immatricolati ai corsi di Laurea triennale e i 156 immatricolati a quelli di Laurea magistrale si conferma una preziosa presenza nel campus di Roma, testimoniata sia da questi numeri (e mi congratulo con la Preside e i Colleghi per il lavoro fatto in questi anni), sia dalle significative iniziative che la vedono protagonista insieme alla Facoltà di medicina e chirurgia, proseguendo così un’efficace interazione interdisciplinare. A testimonianza di ciò, anticipo qui un dato relativo ai dottorati: dal XXXVI ciclo (a.a. 2020/2021) è stato attivato il primo corso di dottorato dell’interfacoltà Economia-Medicina in Health Systems and Service Research.

L’attività di ricerca nell’anno accademico 2020-2021 è stata finanziata da circa 8,5 milioni di euro di nuove entrate. Tra questi, la parte più significativa, oltre 4 milioni, proviene da Enti nazionali ed internazionali per progetti di ricerca competitivi. Non è indifferente anche il dato relativo ai fondi di Ateneo, il cui contributo ammonta a € 1.220.184. Nello stesso arco temporale sono quindi stati attivati 307 progetti universitari – di cui 64 consulenze, 158 ricerche finanziate dall’Ateneo, 44 contributi e donazioni alla ricerca, 29 progetti da bandi pubblici, 12 progetti da bandi privati.

La qualità dei ricercatori della sede di Roma si conferma di primo livello: essi hanno infatti prodotto più di 1.500 pubblicazioni scientifiche e hanno effettuato 227 application, di cui 175 a bandi nazionali (141 enti pubblici e 34 enti privati), 28 a bandi della Commissione europea e 24 a bandi di altri Enti internazionali.

I riconoscimenti internazionali, nei ranking più prestigiosi, ottenuti dai ricercatori della facoltà sono un vanto per l’intero Ateneo.

Anche rapporto della Facoltà con la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS ha rafforzato la capacità di ricerca dei due enti. La Fondazione ha avviato, nel 2021, 97 nuovi progetti no profit finanziati per un importo totale che supera i 15 milioni di euro (€ 15.097.136) , di cui la parte più significativa – quasi 10 milioni – sono frutto di progetti finanziati da bandi competitivi. Sempre nell’anno 2021, il Comitato Etico del Policlinico ha valutato 243 studi clinici profit, 496 studi no profit di cui 143 co-finanziati da Aziende biomediche ed Enti pubblici e privati, generando oltre 12 milioni di euro di fatturato.

Quanto all’assistenza, il ruolo del Policlinico Gemelli nel sistema sanitario italiano non ha bisogno di essere sottolineato. Tra i tanti riconoscimenti ottenuti uno merita di essere su tutti menzionato: l’accreditamento della Joint Commission International (JCI) quale Academic Medical Center anche a seguito della positiva valutazione del percorso educativo dei medici in formazione, elemento che è stato accuratamente valutato dai commissari esterni. Una prova ardua, soprattutto per un ospedale di tali dimensioni e operante in un sistema di servizio pubblico, superata in modo eccezionalmente brillante nonostante le gravi difficoltà del periodo. Mi congratulo per questo importante risultato (e anche per l’ottima valutazione conseguita dalla sede e dal Corso di Laurea in Medicina in sede di verifica di accreditamento ANVUR), frutto entrambi di un intenso sforzo collettivo, al quale hanno partecipato tutte le componenti del Policlinico e della Sede. Quando si parla dell’Università e del Gemelli come di una comunità, di una famiglia, non si evocano formule astratte: la capacità di affrontare compatti, uniti dall’obiettivo comune, dalla fedeltà ai valori che qui si affermano e si vivono da sei decenni, le più grandi difficoltà e le prove più impegnative ne sono la dimostrazione autentica, “sul campo”. E sono la prova che la Facoltà e il Policlinico di oggi stanno onorando il lascito dei fondatori e di tutti colore che ci hanno preceduti in questi ruoli.

Non è facile, va detto, raggiungere e mantenere elevati livelli di qualità e volume delle prestazioni. La scelta di fare del Gemelli un ospedale a servizio della comunità, leva fondamentale del sistema sanitario pubblico, aperto a tutti, gratuito, che non seleziona i casi da trattare secondo criteri di convenienza, che accetta di erogare prestazioni sottocosto o in eccesso rispetto al budget assegnato, è irrinunciabile. Ma implica un impegno arduo; la sostenibilità economica è un traguardo raggiunto e mantenuto con grandi sforzi. E spiace, in tante occasioni, dover constatare che ancora non si comprende la reale missione e funzione di questo ospedale e di questo Ateneo, troppe volte respinti in una indifferenziata categoria di operatori “privati”, facendo violenza alla natura non profit di questa istituzione, che si alimenta grazie alla propria attività, didattica, di ricerca e assistenza, e restituisce in strutture e servizi agli studenti, ai ricercatori e ai pazienti, ogni centesimo incassato. E che quando, nell’emergenza, è stata chiamata a contribuire alla difesa della sanità pubblica, ha risposto con tutte le sue energie e capacità.

Confido, non mi stanco di ripeterlo, che di tutto questo si tenga conto nel momento delle scelte.

 7.     In conclusione, come siamo arrivati a questi risultati, dei quali si può, senza enfasi, essere giustamente orgogliosi. Alle nostre spalle ci sono 60 anni di impegno di chi ha avuto l’audacia di sbancare questa collina (diciamolo pure, impervia e, all’epoca, remota) per costruire un grande ospedale; c’è stata la fiducia generosa e coraggiosa dei primi 60 o poco più studenti che si sono iscritti in una Facoltà di Medicina che all’epoca era ancora, letteralmente, un cantiere; c’è la scienza dei docenti, la loro passione educativa; c’è la testimonianza dei nostri laureati che hanno onorato l’immagine dell’Ateneo nella professione; c’è la rinnovata fiducia degli studenti che ogni anno ci affidano una parte importante del loro futuro.

Radici antiche, affondate nel passato. Ma ancora di recente coltivate con intelligenza e passione.

E allora rivolgo un profondo ringraziamento al Preside. Basterebbe dire il Preside, senza bisogno di citare il nome del prof. Rocco Bellantone. Quest’anno giunge alla conclusione del suo terzo mandato; una stagione dell’Ateneo che non sarà dimenticata. Ho condiviso un lungo tratto della sua presidenza, e insieme abbiamo affrontato proprio i momenti più difficili, quando realmente ci interrogavamo sul futuro di questa nostra istituzione.

Grazie alle scelte di quei momenti le crisi sono state affrontate e superate, operando una trasformazione radicale: la creazione della Fondazione, per rendere il Policlinico giuridicamente e organizzativamente autonomo dall’Università è parsa a molti una dolorosa autotomia; uno stravolgimento dell’identità di questa istituzione. La Facoltà ha compreso e ci ha seguito in quel passaggio, al quale il Preside, in un ruolo indubbiamente delicato, ha dato un contributo decisivo, con lucidità e autorevolezza. Grazie a quel passo oggi il nostro cammino procede su un terreno, sempre impervio, ma più sicuro.

Anche la Facoltà è cambiata sotto la sua guida. È diventata un po’ più piccola, in quantità, ma più grande nella qualità. L’organico, dilatato nel passato da scelte che si giustificavano in uno scenario ormai tramontato, si è ridotto, ma le avvedute scelte di progressione interna e di reclutamento dall’esterno hanno fatto crescere in modo rilevante l’apporto scientifico e la reputazione della Facoltà, oggi ricca di studiosi di valore internazionale.

La capacità della Facoltà di generare al suo interno ricercatori di valore, e di attrarne dall’esterno, non è frutto del caso; nasce da una reputazione costruita dal corpo docente e da chi lo ha guidato in questi anni.

Caro Rocco, la Facoltà, l’Ateneo – e per quanto conta io personalmente – ti sono grati.

8.      In conclusione, rivolgo un caloroso saluto di benvenuto ai nuovi docenti che si sono aggiunti in questi ultimi anni alla nostra comunità.

Un ringraziamento a coloro che hanno concluso il loro magistero di docenti e un commosso pensiero a quanti, tra docenti e personale, in servizio e in quiescenza, sono tornati alla casa del Padre.

Ringrazio, ancora, gli amici e colleghi che più da vicino mi aiutano nell’assolvimento dei miei doveri: il prorettore vicario prof. Antonella Sciarrone Alibrandi, i prorettori alla didattica, prof. Giovanni Marseguerra, all’internazionalizzazione, prof. Pier Sandro Cocconcelli, alla ricerca, prof. Roberto Zoboli e alla comunicazione, prof. Fausto Colombo, i delegati rettorali e il direttore generale, dott. Paolo Nusiner.

Una speciale menzione, infine, ai proff. Stanislao Rizzo e Franco Locatelli per aver accettato di svolgere le prolusioni.

9. Questa cerimonia inaugurale è anche, si è detto, l’occasione per celebrare in un contesto accademico solenne i 60 anni di storia della nostra Facoltà medica. Non ne ho percorso analiticamente le vicende, non ho passato in rassegna i nomi dei protagonisti di questa storia, che hanno creato e fatto crescere questa sede, consegnandoci una preziosa eredità. I loro volti e le loro opere sono impressi non solo nel ricordo, ma nelle pietre di questo luogo e soprattutto nel sentimento di chi li ha personalmente conosciuti e di chi ha potuto soltanto leggerne le opere o sentir raccontare del loro insegnamento. Allo stesso modo, alla storia della sede hanno contribuito gli studenti. Sentiamo tutti loro vicini e familiari, anche senza averli tutti conosciuti; e anche se, laureati, non sono più tornati, ma hanno lasciato qui la traccia delle loro speranze, dei loro entusiasmi, il segno delle loro fatiche di studenti, o poi di docenti, medici, personale. Sappiamo che sono ancora con noi e che onorare la storia di questa sede vuol dire ricordare e ringraziare tutti loro. Essere memori e grati dell’eredità che abbiamo ricevuto.

“Io mi domando: come funziona la nostra memoria?”, chiedeva Papa Francesco nell’omelia della Santa Messa del 5 novembre scorso.

Una bella risposta, che si adatta alla storia di questa istituzione, pensata e animata dalla fede e dalla passione di chi l’ha resa viva e operosa, l’ha data William Faulkner (in Luce d’agosto): “La memoria crede prima che il conoscere ricordi”.

Il discorso di

Franco Anelli

Franco Anelli

Rettore Università Cattolica del Sacro Cuore

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