Alla presentazione del nuovo governo, gli italiani si sono sorpresi, una volta tanto, non per i nomi dei ministri ma per quello dei ministeri. Svettano in questa lista il “mare”, il “made in Italy”, la “sovranità alimentare” e “il “merito”. In particolare, per quanto riguarda quest’ultimo, le polemiche non sono mancate. Il merito, secondo alcuni, sarebbe una bella parola dietro cui le classi privilegiate, che hanno accesso alle migliori scuole e alle migliori opportunità, vorrebbero cristallizzare la loro posizione nella società. Al contrario, altri pensano che la mobilità sociale verrebbe assicurata solo da meccanismi che facciano avanzare i migliori non i soliti “raccomandati”.
Del resto, quando si prova a misurare il merito, il nostro paese ne esce a pezzi. Soprattutto guardando ai confronti internazionali. L’Italia è ultima rispetto a tutte le dimensioni considerate: qualità del sistema educativo, certezza delle regole, corruzione, libertà economica, pari opportunità di genere, attrattività delle competenze migliori e infine, appunto, mobilità sociale. Il tema, quindi, è avvincente; parlarne è utile; agire è quantomai necessario. Tuttavia, prima di farlo, il governo farà bene a chiarire alcuni punti. Il primo è naturalmente che cosa si intende per merito.
Al momento, questo è solo un titolo, una parola, un’appendice. Il concetto è ancora tutto da riempire. Che cosa si intende per merito? O meglio: che cosa si dovrebbe intendere? Un approccio che ponesse l’intera enfasi sui risultati sarebbe errato. Su questi, infatti, influiscono almeno due elementi. Il primo è ovviamente lo sforzo. È corretto retribuire o premiare chi si sforza di più e chi lavora meglio. Il secondo elemento è invece definito dalle condizioni di partenza. E premiare qualcuno in base a un risultato (un’occupazione, uno stipendio, un voto scolastico) che dipende dall’ambiente in cui quella persona vive e cresce è invece profondamente sbagliato; anzi, è proprio l’opposto del concetto di merito. Questo approccio è noto in filosofia politica e in economia come “uguaglianza delle opportunità”. Lo Stato dovrebbe accettare, ed eventualmente premiare, le differenze che derivano da sforzi diversi; dovrebbe invece farsi carico di neutralizzare, o perlomeno limitare, le differenze che derivano dalle diverse condizioni di partenza: il luogo di nascita, per esempio; il titolo di studio o la professione dei genitori; il reddito familiare; e così via. Il secondo è quello di chiarire chi dovrebbe essere sottoposto a una valutazione di merito. Gli studenti, i docenti o entrambi? Per gli studenti essere sottoposti a valutazione è ormai la norma. Sia in classe, come ovvio, sia a livello di studi internazionali (si pensi ai vari test Pisa dell’Ocse).
Tuttavia, a questo proposito vale sempre la pena di ricordare che esistono meravigliosi esempi di istruzione scolastica di qualità che non ricorrono ai voti, come il metodo Montessori. Per i docenti, invece, c’è sempre stata forte resistenza. In realtà, per alcuni di essi, un processo di valutazione esiste già. Per esempio, nelle università, dove gli avanzamenti di carriera dipendono dalla qualità della ricerca (anche se, tristemente, non dalla qualità dell’insegnamento) e dove anche gli scatti di stipendio sono legati alla quantità delle pubblicazioni. Se dovessimo immaginare una battaglia bipartisan in Parlamento, probabilmente quella sul merito sarebbe la prima che ci verrebbe in mente.