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Conflitto israelo-palestinese, nessuna guerra ha un vincitore

08 novembre 2023

Conflitto israelo-palestinese, nessuna guerra ha un vincitore

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Un dialogo sulla guerra e per la pace in Israele e Palestina, una lezione aperta suggerita dagli stessi studenti per cercare di comprendere meglio la guerra tra Israele e Palestina. 
La Facoltà di Scienze politiche e sociali, con i corsi di laurea in Scienze politiche e delle relazioni internazionali e in Politiche europee e internazionali, ha scelto di accogliere la richiesta, riunendo martedì 7 novembre in una gremita Aula Magna cinque esperti che hanno provato a sintetizzare i punti di vista storico, politico, giuridico e sociale come lettura e possibile sguardo al futuro di un Paese dilaniato dal conflitto.

Partendo dalle parole di Papa Francesco “Ogni guerra è una sconfitta”, il preside della Facoltà Guido Merzoni ha ricordato che «essere per la pace, non come bandiera ma come sforzo per costruirla è un modo realista di guardare le cose».

«A un mese dagli attacchi terroristici di Hamas il numero dei morti corrisponde a circa la metà di quelli delle Twin towers» - ha detto Vittorio Emanuele Parsi, direttore di Aseri e docente di Relazioni internazionali. Si parla di un conflitto oggi dislocato su due livelli secondo il professore. Il primo, locale, ha visto Israele colpito nella sua sicurezza. Hamas ha infatti raggiunto il suo obiettivo colpendo nel suo punto debole l’avversario che, non a caso, in tutta risposta agisce e continuerà ad agire a livello miliare. Inoltre, «sono in gioco non solo la Striscia di Gaza, ma anche la Cisgiordania che sta sempre più appoggiando Hamas, l’Arabia Saudita, la Turchia, l’Egitto, la Giordania e Hezbollah che ha i suoi obiettivi».
Il secondo livello internazionale coinvolge Russia, Europa e Cina, intenti a perseguire interessi e concetti di pace diversi, derivanti «dalla resa, o dalla sconfitta, o dal conseguimento di obiettivi, riducendo il peso dei vincoli delle diverse parti».

Storicamente la ricostruzione è molto complessa «perché ci sono differenti narrazioni sulla nascita di Israele e non-nascita della Palestina - ha dichiarato Riccardo Redaelli, docente di Storia e istituzioni dell’Asia -. E poi il conflitto viene travalicato e diviene un marcatore dell’orientamento politico ideologico delle singole parti». In questo modo non si racconta la guerra in modo obiettivo, ma la propria guerra. 
Dalla nascita del movimento sionista alla fine del XIX secolo alla proposta dell’ONU nel 1947 di creare due Stati (che portò alla nascita di Israele ma non della Palestina), dalle guerre arabo israeliane alla fondazione dell’OLP nel 1964, dall’accordo di Oslo del 1993 alle nuove violenze e a un radicalismo inarrestabile nel 2000, fino agli Accordi di Abramo nel 2020 tra Emirati Arabi Uniti, Israele, Stati Uniti e Bahrein: entro i confini tracciati solo per punti dal professore si snoda una storia lacerante che ha assecondato atrocità e tentativi di annientamento. Il monito va oltre la linea di demarcazione tra Stati e riguarda oggi da un lato il ritorno dell’antisemitismo in Europa e dall’altro l’attenzione ai diritti negati del popolo palestinese. 

Come ci si pone a livello giuridico di fronte alla questione israelo-palestinese? Andrea Santini, docente di Diritto dell’Unione Europea e Diritto internazionale, ha parlato del principio di autodeterminazione dei popoli, come uno dei fondamenti del diritto internazionale contemporaneo che si applica anche nei territori occupati militarmente, come nel caso della Palestina, anche se è difficile definire i territori palestinesi. «È importante poi distinguere tra lo ius ad bellum, la liceità della forza armata, e lo ius in bello, ovvero le regole da applicare ai conflitti armati. Il primo deve avvenire nel rispetto del secondo, quindi non con ogni mezzo. Per questo si riscontrano a volte gravissimi atti come i crimini di guerra rivolti ai civili, la presa di ostaggi, le torture e le violenze sessuali. Il problema è l’effettività del diritto internazionale umanitario a cui le democrazie devono prestare ancora più attenzione». 

Ma c’è un altro modo di fronteggiare i conflitti, di qualunque genere siano. È lo sguardo della giustizia riparativa passando dal livello delle istituzioni a quello delle persone. «Se noi oggi fossimo a Gerusalemme o a Haifa in aula ci sarebbero studenti israeliani e studenti palestinesi e lavorare con persone colpite direttamente dalla guerra non è facile» - ha raccontato Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale e Giustizia riparativa. La terra abitata da israeliani e palestinesi, la Terra Santa, insegna a vivere insieme perché è una necessità, anche se può sembrare paradossale. Diceva Martin Buber che «ebrei e arabi non solo devono vivere gli uni accanto agli altri ma insieme gli uni agli altri». 
Qui la pace come convivenza pacifica è una questione di vita o di morte. «Bisogna smettere per primi e riconoscere la violenza della propria parte, sdoganata come giusta. Non si può tribalizzare il dolore, non c’è una violenza giusta contro una violenza sbagliata. Questa è la chiave per la risoluzione delle guerre nel mondo. Di più. Ogni atto di cura, rispetto, solidarietà verso la parte avversaria ha l’effetto di disarmare l’altra parte» - ha concluso Mazzucato. 

Sembra un’operazione semplice ma non lo è, quella di amare i propri nemici, sollecitata da Gesù nel Vangelo. Ma «bisogna scegliere la pace senza se e senza ma» - ha detto Simona Beretta, direttrice del Centro di Ateneo per la Dottrina sociale della Chiesa. “La pace è l’anelito più profondo di ogni essere umano”, si legge nella Pacem in Terris di Papa Giovanni XXIII di cui ricorre quest’anno il 70° anniversario. Per questo va costruita adesso con coraggio. «La principale causa della guerra è la paura che trova alimento nell’ignoranza e nel pregiudizio fino a degenerare facilmente nel conflitto. Cerchiamo di essere consapevoli che il misterium iniquitatis c’è ma al tempo stesso proviamo a prendere contatto con le ferite delle vittime e a risanarle. “Nessuno ha vinto l’ultima guerra e nessuno vincerà la prossima” come diceva la “madre” della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, Eleanor Roosvelt».

Oggi due visioni si possono portare con sé davanti all’orrore di questo conflitto. Guardando il quadro geopolitico solo due vie d’uscita si prospettano all’orizzonte secondo Parsi: «la capacità di un attore di imporre la propria egemonia, come ha fatto Israele fino ad oggi, o un accordo comprensivo negli interessi di tutti, soluzione più difficile che implica una visione politica e molta audacia».

Guardando il cuore dell’uomo è possibile spendersi per la pace, ciascuno nel proprio qui e ora. Come ha ricordato Mazzucato, sono sempre vive le parole di Etty Hillesum: «Si deve contribuire ad aumentare la scorta di amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all’odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo più inospitale”.
 

Un articolo di

Emanuela Gazzotti

Emanuela Gazzotti

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