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Guerra psicologica e psicologia per la pace

22 aprile 2022

Guerra psicologica e psicologia per la pace

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Tentare di distruggere la mente delle persone è la missione della guerra psicologica (PsyOp). Niente di astratto o teorico, piuttosto una realtà, una vera e propria strategia bellica che è stata applicata in tutti i grandi conflitti. 

L’ha spiegato Fabio Sbattella, coordinatore dell’Unità di ricerca di Psicologia dell’emergenza e dell’intervento umanitario del dipartimento di Psicologia in Università Cattolica durante un webinar con gli studenti della facoltà di Psicologia giovedì 21 aprile.

L’Ateneo, impegnato su diversi fronti per l’Ucraina, ha costituito anche un team speciale per l’emergenza di cui fanno parte due psicologhe e psicoterapeute, rispettivamente di origine russa e ucraina con le quali in questi mesi è stato avviato un lavoro a distanza che ha realizzato quattordici interventi per sostenere psicologicamente, grazie alle tecnologie informatiche, le persone in situazioni particolarmente vulnerabili come a Leopoli sotto i bombardamenti. 

Anche in Italia si stanno accompagnando le famiglie che accolgono donne e bambini, ascoltando le loro speranze e i loro sogni. L’impegno è anche quello di portare idee, chiavi di lettura, spunti, domande credendo nell’intelligenza e nel cuore che aiutano ad agire nelle direzioni migliori.

Durante l’incontro lo psicologo ha sottolineato che non è la prima volta che ci troviamo di fronte a una guerra straziante vicino a casa, così come abbiamo già vissuto una pandemia. «Una pandemia che ha fatto 35 milioni di morti nel mondo e obbligato a ripensare la vicinanza interpersonale, gli affetti, la sessualità è stata quella dell’Aids nel 1982, per la quale, tra l’altro, non è mai arrivato un vaccino - ha specificato Sbattella -. E poco dopo nel 1991 abbiamo assistito a dieci anni di guerra in Jugoslavia: città rase al suolo, 140.000 morti, bombe all’uranio impoverito, crimini di guerra, 2,7 milioni di rifugiati e sfollati interni, anche in Italia». 

La domanda nasce spontanea tra gli psicologi e tutti coloro che scelgono un lavoro di tipo prosociale: come siamo sopravvissuti a questi eventi? Per quanto non ci sia una risposta definitiva, il docente ha suggerito una risposta: «Ricambiando il male con il bene motivati all’aiuto, scegliendo la vita e non la morte». E ha raccontato la storia dell’uomo che “ha salvato il mondo”. Il 26 settembre 1983 il tenente colonnello sovietico Stanilav Petrov, addetto a controllare i movimenti degli armamenti statunitensi attraverso i dati inviati dai satelliti, intercettò cinque missili intercontinentali partiti da una base nel Montana. Era un periodo di grande tensione tra le due superpotenze e gli ordini, in un caso come questo, la comunicazione ai superiori alla quale sarebbe seguita una massiccia operazione di rappresaglia. In pochi minuti prese la decisione di non fare nulla interpretando il segnale come un errore del satellite, ed ebbe ragione. Così salvò il mondo dalla distruzione e anche se poi fu degradato per aver disubbidito agli ordini, confermò la sua scelta di non partecipare alla distruzione.

Non sappiamo con certezza se questa storia sia vera, ma sicuramente è credibile ed è alla base delle scelte per la vita. 
«Nelle guerre interviene una responsabilità diffusa.

Le menti che distruggono sono ingegneri, laureati, politologi, economisti che pianificano, organizzano, progettano, investono e ordinano - ha continuato Sbattella - . Agiscono sulle emozioni e riescono ad annientare il nemico conoscendo bene il fattore umano o, ancora meglio, assoggettandolo, asservendolo, portandolo dalla propria parte e facendolo lavorare per sé. Che gioca un ruolo determinante è riuscire a conquistare la mente dell’altro».

Infatti, la strategia bellica si basa sulla disinformazione per confondere il nemico. Sulla propaganda per motivare la propria base e influenzare terze parti, dare evidenza di morte per terrorizzare, distruggere per demoralizzare, provocare per suscitare impulsività.

«Anche noi in Italia siamo dentro dinamiche di guerra, pur non avendo le bombe in casa. La guerra psicologica ha coinvolto la nostra comunità, siamo finanziatori di armi ma anche costruttori di solidarietà. Ansia e incertezza sono diffuse, crescono scoraggiamento e depressione, noi assistiamo a traumi indiretti, alla spinta all’azione cieca».

E allora qual è la strada da intraprendere? «Dobbiamo importare una psicologia per la pace e in questo modo operare contro la guerra, proteggere dagli effetti della guerra psicologica una volta riconosciuta, disattivare la violenza introiettata, e, ancora una volta, rispondere al male con il bene».
 

Un articolo di

Emanuela Gazzotti

Emanuela Gazzotti

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