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La guerra ai libri attraverso la censura

18 maggio 2022

La guerra ai libri attraverso la censura

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«L’attualità della censura nella triste primavera del 2022 segnata dall’invasione russa dell’Ucraina è testimoniata da una guerra parallela alle parole che, dalle pagine cartacee o digitali di libri e giornali, mina la libertà di espressione di chi, perciò, si industria con ogni tentativo possibile per non farsi colpire e azzerare, usando anche la tecnologia di blockchain e videogiochi per diffondere le notizie e i termini proibiti “guerra” o “invasione”».

Si leggono queste parole di Roberto Cicala, docente di Editoria libraria e multimediale in Università Cattolica e direttore della casa editrice Interlinea, nell’introduzione a Guerra ai libri. Casi editoriali di censura, il libro a cura degli studenti del Laboratorio di editoria dell’Ateneo, frutto del lavoro di un anno e raccolta antologica di casi editoriali di censure in diverse parti del mondo e in varie epoche.

Il libro sarà presentato mercoledì 18 maggio alle ore 17.30 presso il Ristorante.9 in via Necchi 9 a Milano con un reading degli studenti, e al Salone del libro di Torino venerdì 20 maggio alle ore 13.45 nella sala Madrid. Pubblichiamo di seguito alcuni stralci dell’introduzione del professor Roberto Cicala.


È indicativo che oggi siano soprattutto i giovani a volere innanzitutto capire che cosa sia il fenomeno della censura a partire dai libri: significa discutere le ragioni e i modi del controllo della cultura individuando le caratteristiche di ciò che è più o meno legale. Ma proprio dalle nuove generazioni arriva la volontà di sventare il rischio di cadere nella generalizzazione, in tempo di politically correct, di cancel culture, di denigrazione del mondo Lgbtq+ e di campagne di chi si sente sempre woke (nel senso di stare svegli su gravità e ingiustizia delle disuguaglianze, con un termine usato da attivisti politici statunitensi in un’accezione che talvolta arriva all’intolleranza venendo assolutizzato e perciò giudicato in senso non positivo).

Proprio l’editoria giova a ritenere che l’esperienza della censura non sia dappertutto «perché una definizione omnicomprensiva cancella tutte le definizioni e pertanto non ha più senso. Identificare la censura con restrizioni di ogni sorta significa banalizzarla» - ha scritto Robert Darnton, che ha studiato I censori all’opera, come s’intitola una sua ricerca recente.

Allora per comprendere le ragioni di una censura che nella storia anche attuale sembrerebbe sempre necessaria viene in soccorso una schedatura di casi specifici, pur essendo una limitata selezione, raccolti dal Laboratorio di editoria dell’Università Cattolica nell’idea della Guerra ai libri che anni fa altri giovani avevano studiato individuando quell’Inchiostro proibito dei libri censurati nell’Italia contemporanea: sono due titoli di una bibliografia ricca, che dimostra tra l’altro come spesso censurare è sinonimo di esaltare e far conoscere, con l’effetto contrario. 

Dal Piacere di D’Annunzio per i suoi «personaggi poco virtuosi» fino addirittura a Harry Potter perché inneggerebbe alla stregoneria: è sempre indispensabile individuare quale sia l’autorità che esercita la forza coercitiva - Stati, religioni o altre organizzazioni di potere - e analizzare i meccanismi di controllo, che possono essere preventivi (basti pensare ai «privilegi» della Francia borbonica che certificava gli autori e i tipografi più degni per sorvegliarli e reprimerli), ma possono essere anche successivi, come avviene nella maggioranza dei casi, dopo la pubblicazione di un’opera (con vicende di autori che hanno collezionato decine di processi, primo fra tutti Pasolini). 

In questa censura per lo più ritardataria intervengono così i motivi della tipica casistica da inquisizione in senso lato: ragioni morali (le più diffuse, come l’offesa al comune senso del pudore nell’art. 527 del codice penale, da Lolita a L’amante di Lady Chatterley, ma anche l’Ulisse di Joyce), motivazioni politiche («Quattro gambe buono, due gambe cattivo!» della Fattoria degli animali di Orwell resta un caso emblematico, ancora oggi vietato in Cina), valori religiosi assolutizzati e integralisti (come la fatwa di condanna a morte di Salman Rushdie per i suoi Versi satanici che ha colpito anche i suoi traduttori) e potremmo azzardare ad aggiungerci la spinta economica, che può arrivare a mettere il mercato, anche grazie a tecnologia e algoritmi, come autorità che giudica e seleziona (tra l’altro Milan Kundera si è più volte lamentato di rimaneggiamenti di un editore inglese per soddisfare ipotetici gusti del pubblico). 

Di fronte ai molti casi, più o meno superati in tempi recenti, non è facile tracciare una linea di demarcazione, un discrimen legato alla libertà di espressione, tra ciò che è lecito e legale e ciò che non lo è. Si tratta infatti di confini incerti: ognuno vive con proprie mappe mentali, sociali, ideologiche e linguistiche che non sempre corrispondono alle mappe fisiche e geografiche in cui si vive. Eppure, nel mondo delle parole dei libri è utile individuare una cartografia della libertà di stampa per orientarci nel tempo della storia e nello spazio delle nazioni.

Si possono scorgere e registrare tendenze sconfortanti e contradditorie in grado di insegnarci, potremmo dire antropologicamente, che c’è sempre qualche tentativo di tenere sotto controllo cittadini che siano lettori (perché sono pure elettori e comunque consumatori?) che alcune volte si adattano per un istinto di sopravvivenza e altre volte non lo fanno per un senso di protesta. Dopotutto anche tra gli studiosi la censura non è soltanto la violazione di un diritto; per taluni è «un ingrediente pervasivo della realtà sociale: la censura è all’opera nella psiche individuale come nella mentalità collettiva, in ogni luogo e in ogni epoca». 

Chi vuole mappare il fenomeno censura si trova pertanto a fare i conti con confini mutevoli, mobili, incerti. Come le parole, potremmo dire. O, meglio, come il mondo globale della comunicazione, che è appunto una dimensione liquida e che non può imbrigliare il pensiero e le parole stesse neppure in un’unica concezione di che cosa effettivamente sia la libertà di espressione. 

L’idea geniale di Orwell del «Grande fratello» in 1984 continua a essere avvincente e inquietante: «si potrà mai avere uno slogan come “La libertà è schiavitù”, quando il concetto stesso di libertà sarà stato abolito? Sarà diverso anche tutto ciò che si accompagna all’attività del pensiero. In effetti il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa». Sono affermazioni che fanno sorridere visto che appaiono esagerate e irrealizzabili. Ma non è sempre così e lo stesso autore di Fahrenheit 451, Ray Bradbury, ha scritto il romanzo ben sapendo che il rogo dei libri non appartiene soltanto alla letteratura fantascientifica ma ha una storia lunga e diffusa nel mondo (e non va dimenticato che la Ballantine Books ha pubblicato molte edizioni del romanzo cancellando termini, di cui l’autore non si è accorto per tredici anni, come «aborto» o «inferno», quest’ultimo imprescindibile in un libro che rappresenta i roghi di coscienza di una civiltà).

Resta allora lo sconcerto di fronte alle notizie di caccia alle streghe provenienti dagli Usa che sono la patria del Primo emendamento scritto contro leggi «che limitino la libertà di parola e di stampa». E ciò dovrebbe valere anche quando si tratta di censure per giustificazione educativa verso le giovani generazioni, come se l’istruzione non avesse bisogno di una mediazione di chi educa appunto a capire, interpretare e scegliere. Altrimenti il rischio è demonizzare, segregare, eliminare e dimenticare, come avviene per la protagonista di Amatissima della censurata Toni Morrison: «Non era una storia da tramandare. Si dimenticarono di lei, come si fa con un brutto sogno».
 

Un articolo di

Redazione

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