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D’Avenia, narrare è mettere in gioco la tua anima

10 febbraio 2021

D’Avenia, narrare è mettere in gioco la tua anima

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Alessandro D’Avenia è tornato nei giorni scorsi in Cattolica per fare una lezione, ormai tradizionale, al Master in “International Screenwriting and Production”, dove si diplomò a fine 2007; di lì a poco sarebbe nato Bianca come il latte rossa come il sangue, il romanzo che avrebbe cambiato, almeno in parte, la sua vita, e - dalle testimonianze appassionate che si possono leggere sul suo blog e sui social - quella di moltissimi lettori. Un impatto analogo hanno avuto i libri successivi, tutti grandissimi successi, molto amati, con molte traduzioni in altrettante lingue e Paesi. Lo abbiamo incontrato e non si è sottratto a domande impegnative.

Il 3 novembre è uscito il tuo nuovo romanzo L’appello, che ha scalato subito le classifiche e rimane fra i più venduti, segno di un dialogo con i lettori che appare sorprendente, anche perché i tuoi ultimi libri sono abbastanza impegnativi. Come te lo spieghi?
«È sempre pericoloso rispondere a una domanda in cui ti viene chiesto perché hai successo. Rischi di essere ridicolo. Se posso provare a tracciare qualche ipotesi direi che io sto portando avanti la mia ricerca personale, ogni libro è diverso dal precedente. Non uso formule di successo, ma rischio ogni volta. Cerco di essere fedele alla mia ispirazione e non alle aspettative. Quando scrissi il libro su Leopardi tutti dicevano: sarà un flop. Un saggio, Leopardi... Sei pazzo! Eppure non è solo un best (il valore di un libro non sta certo nel numero di copie vendute sul momento) ma un long seller. Cosa che è accaduta anche con gli altri libri. Questo vuol dire che le persone che mi leggono crescono con me, fanno la strada insieme a me, si fidano dell'autenticità di ciò che cerco, seppur con tante imperfezioni. E questo genera ciò che è l'unica verità che conta sui libri: il passaparola. E la parola passa solo quando apre nuove strade alla vita».

Le recensioni de L’appello parlano molto della figura del professore cieco, che è il protagonista del romanzo, e dell’idea di scuola, dell’attenzione agli studenti alla loro personalità e al loro destino, ma da quello che ho visto poche invece toccano un tema che nel libro mi sembra molto importante, cioè la rilettura di molte acquisizioni delle scienze biologiche e fisiche in un’ottica umanistica, cioè non riduzionista: che cosa dice all’uomo la forma dell’universo, la natura della luce, la distanza delle galassie… Mi sembra che in questo romanzo ci sia un forte tentativo di rileggere la cultura scientifica secondo una visione sapienziale…
«Abbiamo un rapporto con il mondo puramente funzionale e manipolativo. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Da quando la conoscenza è diventata sinonimo di controllo, abbiamo trasformato la realtà in oggetto. Il progresso è l'idolo moderno, e per accelerarne l'accadere, che ci darà la felicità, dobbiamo accelerare il tempo delle cose e delle persone. Questa accelerazione ci aliena da noi stessi e dalle cose: per ottenere qualcosa dagli altri o dalle cose li devi sfruttare, manipolare, rendere oggetti delle tue aspettative. Questo vale per tutto: dalle relazioni agli acquisti compulsivi. Io desidero, come ci ha insegnato la fisica del XX secolo, che torniamo ad abitare il mondo, e per farlo bisogna da un lato “dare tempo al tempo”, cioè permettete alle cose di essere senza le nostre manipolazioni e aspettative. Non sappiamo più godere la vita e il creato perché non lo lasciamo essere. La felicità oggi è sempre “qualcosa da fare” e noi diventiamo il prodotto di noi stessi e questo ci rende spesso insoddisfatti e sempre stanchi. Proprio la scienza del XX secolo si è liberata dal pregiudizio positivista che esista una realtà oggettiva, invece tutto è relativo alla posizione che l'osservatore decide di prendere. Come nell'insegnamento: lo stesso ragazzo guardato con amore risponde bene, guardato con sfiducia risponde male. Dobbiamo trovare un rapporto di nuovo umano con il tempo, e quindi con le cose e le persone. Ogni elemento del creato è parte di noi e solo in noi trova il suo compimento. E lo sguardo che consente alle cose di fiorire nel tempo giusto è l'amore».

Sin da Bianca come il latte rossa come il sangue nei tuoi libri si parla senza timore di fede, del nostro destino eterno, del senso più profondo della vita e degli avvenimenti…
«Come diceva Cormac McCarthy in una intervista, nei miei libri parlo solo di due cose, le uniche che contano, la vita e la morte. Il resto mi annoia. Il compito della letteratura è mettere l'uomo di fronte al suo destino, perché l'essenza della narrazione è mettere in scena l'uomo che agisce (non necessariamente fuori di sé). La letteratura è un distillato dell'esperienza umana, chi non legge non vuole fare esperienza perché ne ha paura. L'uomo si rivela quando agisce, quando impegna la sua libertà. Per chi si interroga sul senso della vita, sul destino, omettere la domanda su Dio sarebbe come parlare di miele senza chiedersi chi sono e cosa fanno le api. Quello che mi piace della Bibbia è che ti parla di Dio narrativamente, cioè come interlocutore con cui parlare, camminare, litigare, combattere... Anche quella è una storia. E poi penso a Iliade e Odissea che cominciano entrambe con il concilio degli dei, penso a Dante, a Dostoevskij, a Nietzsche... tutti i più grandi interrogano Dio in ogni pagina, fosse anche solo per tirarlo giù dal cielo».

Guardando il tuo blog e le pagine facebook che ti riguardano appare un legame con i lettori fortissimo e molto intenso. Anche i tuoi articoli settimanali sul Corriere della sera sono molto commentati e condivisi. Come riesci a gestirlo senza soccombere di fronte a questa valanga?
«E chi lo dice che non soccombo... Non so chi abbia inventato la singolare idea dello scrittore nella torre d'avorio. Certo lo scrittore ha la sua torre d'avorio, che è la sua vita interiore dove tutto è fermo come l'occhio del ciclone e dove, nel bene e nel male, è solo e irraggiungibile, ma poi nella vita di tutti i giorni è non solo uguale agli altri (fa la spesa, cucina, chiama l'idraulico, si arrabbia, rompe un bicchiere...) ma dentro una comunità di cui ha creato dei legami. Tutti quelli che lo leggono lo sentono amico e quindi si confidano, gli chiedono consiglio... Tutto questo si moltiplica nella cultura della rete, brucia le distanze. Questo mi nutre perché mi dà un ritorno molto rapido su ciò che scrivo, ma allo stesso tempo mi travolge, perché la responsabilità è enorme. Come quella ragazza che mi scrisse che stava per suicidarsi e le feci promettere che avrebbe aspettato la lettura del libro su cui stavo lavorando, o un'altra che morì di anoressia mentre intrattenevamo una corrispondenza proprio a partire dal suo male...».

Possiamo entrare un po’ nel “laboratorio” dei tuoi libri? Come nasce l’idea? Come la sviluppi? C’è qualche “tradizione” che segui nel lavorare a un libro?
«L'idea è una fessura nella superficie delle cose. Un evento, un fatto di cronaca, un volto, una frase, che in qualche modo risuona di tutto il senso del mondo e fa crollare gli schemi e le finzioni che io creo o che noi, la cultura in cui siamo immersi, creiamo per tirare avanti ma che sono menzogne. È come se quella cosa o parola mi interpellasse e mi chiamasse. Rispondere è il modo in cui sento di potermi liberare, rimanere vivo e scoprire qualcosa di nuovo, come credo accada a uno scienziato o a un esploratore. Poi metto alla prova quella luce e vedo se resiste nel tempo, se è feconda. A poco a poco diventa una voce, quella dei personaggi, con cui dialogo. Comincio a guardare la realtà con le domande di quella voce e le presto i miei occhi. In qualche modo passi da una visione del mondo in mono a una in stereo: diventi quelle voci e vivi più vite. Il mondo così interrogato comincia a svelarsi e a rispondere. Quando questo dialogo con la realtà raggiunge una soglia critica comincio a scrivere. A quel punto metto in atto tutta la disciplina del caso: un tot di ore al giorno, i trucchi del mestiere su come rendere una narrazione solida. Artigianato puro».  

Con i tuoi ultimi tre libri hai anche realizzato altrettante performance teatrali: come ti sei trovato con questa forma per te nuova? Intendi continuare?
«Sì, perché il teatro è la quintessenza della narrativa: in scena agisci, non pensi. L'uomo si rivela quando agisce. E quando sei tu in scena sei tu che vivi quelle scelte, anima e corpo. Diventa anche quello un modo di fare ricerca. Infatti io non traduco i libri in spettacolo teatrale, ma ne faccio un “racconto teatrale” cioè vado in scena con la stessa ispirazione dei miei personaggi e lascio che, nel raccontare, accadano delle cose, dentro di me, e così accadono anche dentro il pubblico. Ogni serata è diversa dalla precedente. Io sono un narratore, per questo poi faccio l'insegnante e lo scrittore. A me interessa narrare. E narrare è esplorare il mistero dell'esperienza umana in tutte le sue sfaccettature. Il professore, come un postino, porta i racconti degli altri al tuo indirizzo, lo scrittore scrive lui direttamente la lettera».

Bianca come il latte rossa come il sangue ha compiuto ormai dieci anni. Sei ancora affezionato a questi personaggi? Pensi che torneranno, magari da adulti?
«Al momento sto lavorando all'adattamento del libro per una serie tv. Più che farli diventare adulti, mi diverte vedere chi diventano in un tempo diverso, dieci anni dopo. Loro non invecchiano, perché sono sempre contemporanei e portano la sfida delle loro domande e ricerche al nuovo lettore, o allo spettatore degli anni ‘20. Il protagonista che lotta prima per amore e poi contro la morte non invecchia mai. Ed è bellissimo ampliare questo racconto dell'epica e dell'etica del desiderio, proprio in un tempo che sta perdendo il desiderio. Anzi paradossalmente i personaggi di Bianca come il latte sono più attuali di allora. Allora erano in anticipo...».

Ormai da diversi anni fai lezione al Master dove ti eri diplomato anni fa: puoi dirci che cosa cerchi di trasmettere agli studenti che incontri?
«1% ispirazione, 99% disperazione. È un lavoro quotidiano fatto di disciplina e mestiere, e in cui è continuamente in gioco la tua anima, cioè la tua vita. Come diceva Pavese ciò che conta non è l'esperienza esterna, ma quella interiore. Se non hai vita interiore, se non coltivi lo sguardo, la realtà non ha niente da dirti. Non si scrive per dire qualcosa (narcisismo) ma perché si ha qualcosa da dire (fare dono della realtà a se stessi e agli altri). Quindi cerco di trasmettere loro che la tecnica serve nei momenti di bonaccia, quando il vento cala e devi sapere come sfruttarne qualche refolo con mestiere, ma se non sai cosa è il soffio della vita non ti servirà a nulla conoscere alla perfezione la tecnica. Come per uno strumento musicale: solo quando dimentichi la tecnica cominci veramente a suonare, ma se non hai la tecnica non puoi suonare. Senza tecnica l'ispirazione si disperde come un fiume senza argini, o un vento senza vele. Ma senza vento non si va da nessuna parte...».

Un articolo di

Armando Fumagalli

Armando Fumagalli

Direttore del master International Screenwriting and production e docente di Semiotica

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