Proprio questo argomento, che l’inchiesta giornalistica prima e ora la pubblicazione sostengono con la forza persuasiva delle storie di vita, è all’origine della richiesta all’Europarlamento. La petizione, depositata a Strasburgo ed elaborata grazie ad un team di docenti coordinati da Raffaella Iafrate e Claudia Mazzucato, sollecita l’assemblea a spronare le istituzioni europee e i singoli Stati membri affinché, dando piena attuazione all’Agenda “Donne pace e sicurezza” stabilita dall’Onu, promuovano la partecipazione delle donne «nei processi di pace e nella costruzione della sicurezza a valle di guerre e altri conflitti armati interni e internazionali, nei casi di terrorismo ed estremismo violento, nonché nei contesti di transizione verso la democrazia e la pace positiva».
Insomma, il buon senso, la ragione, le esperienze di prossimità convergono sul punto: la pace riesce, se la si fa con le donne.
«La metà della popolazione mondiale è costituita da donne, se non le si coinvolge, quando e dove si decide la pace, il lavoro sarà sempre fatto a metà». - ha sottolineato durante il dibattito Raffaella Iafrate. «Nella nostra richiesta alle istituzioni europee affinché siano considerate, non c’è alcuna rivendicazione di parte – ha aggiunto -. Vorremmo solo che tutti i punti di vista abbiamo pari opportunità, proprio perché siamo convinti che sia una ricchezza dare piena valorizzazione a tutte le differenze, quella portata dalle donne, ma anche dagli altri gruppi dotati storicamente di minore potere: per esempio i giovani o le minoranze discriminate».
Nel libro spiega molto bene quanto prezioso sia il contributo femminile ai tavoli di pace una che se ne intende, Monica McWilliams, unica donna ad essere ammessa nei negoziati che portarono all’accordo del 1998 tra il governo del Regno Unito e quello irlandese. La leader politica nordirlandese dice tra l’altro: «Di solito gli uomini partecipano ai colloqui di pace parlando di armi, di rilascio dei prigionieri, di riforma delle forze di sicurezza, o di ridistribuzioni territoriali. Insomma, parlano di potere. Sono questioni importanti ma non parlano mai di questioni che vengono poste dalle donne, come i sistemi educativi, le politiche per il futuro dei propri figli, di come vivere insieme creando spazi sicuri di convivenza, delle vittime e di come risarcirle».
Non dovrebbe risultare singolare che anche di loro ci sia bisogno dove ci si siede per trattare; eppure, come ha fatto osservare Viviana Daloiso, «le donne continuano non esserci».
Per esempio, nei primi incontri diplomatici tra Ucraina e Russia c’erano solo due negoziatrici a rappresentare Kiev e una Mosca. In Egitto, a trattare per la tregua tra Hamas e Israele non c’erano né le madri che avevano perso un figlio in guerra, né quelle che ancora attendevano il ritorno di un ostaggio.
L’ambizione della proposta avanzata dal quotidiano con il contributo dei docenti della Cattolica era, tuttavia, anche un'altra. Non solo permettere alle donne di far sentire la loro voce nei posti che contano, ma anche di «democraticizzare» i processi di pace, promuovendo percorsi di «diplomazia riparativa», secondo l’espressione coniata dello studioso australiano John Braithwaite che riceverà il 21 novembre dal presidente Sergio Mattarella il Premio Balzan e il 25 novembre terrà una lectio nella sede milanese della Università Cattolica dal titolo “Gentle ideas for hard problems: war and peace, crime and justice”. «Si crede che la pace, la fanno i potenti, in luoghi non accessibili alle persone comuni, ma in realtà si aiuta la pace, se impariamo a prosciugare dall’odio la vita quotidiana quando è avvelenata dai conflitti. A quel livello tutti noi cittadini abbiamo una parte di responsabilità e possiamo, dobbiamo, esercitarla», ha concluso Claudia Mazzucato.