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Dopo la pandemia il lavoro non potrà che essere ibrido

06 aprile 2022

Dopo la pandemia il lavoro non potrà che essere ibrido

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Zoom fatigue o affaticamento da videochiamate. È l’espressione coniata dagli studiosi per descrivere il malessere psicologico causato dall’eccessivo uso di conference call e riunioni on line sperimentato durante la pandemia. Un disagio con cui hanno dovuto fare i conti i lavoratori in smart working costretti, durante l’emergenza sanitaria, a trasferire tra le mura domestiche il proprio ufficio. Basti pensare che durante il primo lockdown il lavoro da casa ha interessato il 47% dei lavoratori (dati Istat).

Ma sono molti più i pro che i contro. Il ricorso al lavoro agile ha portato, da una parte, le grandi aziende a rivedere i propri modelli organizzativi; dall’altra, ha dato la possibilità al singolo lavoratore di conquistare maggiore libertà e capacità del work life balance. Stiamo andando verso un modello ibrido che tiene insieme le due modalità di lavoro, dall’ufficio e da remoto? A rispondere sono stati mercoledì 30 marzo i partecipanti al dibattito “Qual è il senso del lavoro oggi? Ripensare al ruolo delle organizzazioni al tempo dello smart working”, secondo webinar del ciclo “Dall’uomo alla tecnologia” promosso dal Laboratorio dell’Università Cattolica Humane Technology Lab con l’obiettivo di investigare il rapporto tra esperienza umana e tecnologia da un punto di vista olistico e multidisciplinare.

«Come i cambiamenti tecnologici hanno influito e stanno influendo sul modo in cui lavoriamo?», ha chiesto il giornalista di Rai News 24 Andrea Bettini, moderando il dibattito. «Lo smart working, accanto a indubbi vantaggi, ha generato anche un disagio psicologico, tra cui la fatica da zoom», ha risposto Giuseppe Riva, direttore Humane Technology Lab. «Nel nostro laboratorio ci siamo interrogati sul perché le persone sperimentano questo senso di disagio legato all’uso della videoconferenza». Partendo da una semplice riflessione i ricercatori della Cattolica sono giunti alla conclusione che sia il telelavoro sia la formazione a distanza sono accomunati da una «costante» che riflette la «struttura del nostro cervello»: avvengono in un luogo - la classe e l’ufficio -, sotto la supervisione di una figura esperta - il docente e il capo -, all’interno di un gruppo. «Nel nostro cervello ci sono funzioni legate alla costruzione dell’identità, al rapporto con gli altri, alla sincronizzazione delle nostre attività quotidiane», ha spiegato Riva. I principali attori di tutto questo sono i cosiddetti “neuroni gps” che, attivandosi quando siamo in luoghi specifici, «giocano un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra memoria autobiografica», definendo così la nostra identità. Ora, tutto questo non avviene in una piattaforma digitale che mette in discussione il «senso dell’identità professionale del soggetto» e indebolisce il «rapporto con l’organizzazione». Non solo. Sempre le neuroscienze sostengono che «solo quando ci troviamo in uno spazio fisico si verifica quella sincronizzazione tra onde cerebrali in grado di avere un impatto significativo sul livello di creatività e di efficacia delle persone». Un processo che una situazione di lavoro virtuale non rende possibile: cambiano una serie di «meccanismi automatici» che, se non vanno ripescati, si rischia di ridurre l’efficacia del lavoro da remoto.

Svantaggi, ma anche vantaggi di una modalità che comunque «allena a una diversa organizzazione del lavoro, spesso anche più efficiente», ha detto Cristina Tajani, consigliera esperta presso il ministero del Lavoro e delle politiche. «Con la fine della pandemia si era previsto una interruzione di questa modalità semplificata che, per il settore privato, è stata prorogata fino alla fine di giugno nell’attesa che la contrattazione collettiva definisca un quadro non soltanto a livello nazionale, ma anche di singole imprese, che disegni le modalità di lavoro agile più idonee alla singola organizzazione privata», ha specificato Tajani. «Nel settore pubblico, invece, la stipula dell’accordo individuale è stata anticipata e già oggi è obbligatoria, quindi molte delle pubbliche amministrazioni sono tenute a stipulare accordi individuali con i propri dipendenti in cui le modalità di prestazione agile vengono definite». In ogni caso, al di là della cornice normativa, il «confronto tra sindacati, rappresentanti dei lavoratori e responsabili dell’organizzazione aziendale è un esercizio utile che può migliorare la comprensione delle organizzazioni pubbliche e private e in molti casi anche le loro performance».

E allora, dove si stanno dirigendo le organizzazioni? «I modelli ibridi sono all’ordine del giorno ed è la direzione che stanno intraprendendo le aziende, se non altro perché l’esigenza di autonomia sperimentata dalle persone durante la pandemia è rimasta», ha precisato Stefano Besana, EY wavespace Italy Leader e autore del volume “Future of Work”. Non va dimenticato però che questo «tipo di processi e di modalità di lavoro vanno accompagnati» per trovare un giusto bilanciamento tra rientro in presenza e depersonalizzazione, causata appunto dall’uso eccessivo del digitale. Di qui l’importanza dello scopo. «Una maggiore consapevolezza orientata a un “purpose” che mi orienta verso qualcosa che faccio perché ho una motivazione intrinseca è qualcosa dalla quale non possiamo prescindere».

Un tema, quello degli obiettivi, che rimanda a un altro aspetto fondamentale: la learning organization. Secondo Besana, infatti, «la vera sfida è cambiare la metafora organizzativa e considerare le organizzazioni, per dirla con le parole del ceo di Haier, “foreste pluviali”», organismi viventi in grado di imparare, modificarsi e adattarsi. Del resto, ha fatto eco il professor Riva, «un’organizzazione non è la somma delle sue parti». Ecco perché accanto allo scopo è anche richiesto un «common ground», una visione comune, accompagnata dalla capacità di ciascuno di allargare i propri confini, di andare incontro all’altro.

A completare il quadro sono le competenze individuali. Da questo punto di vista, ha rimarcato Tajani, «il Pnrr rappresenta un’opportunità straordinaria perché, oltre a investire in infrastrutture, contiene una importante scommessa sul tema della formazione». Infatti, nella missione 5 sono state individuate le risorse necessarie, circa 5 miliardi di euro, per potenziare quelle «famose politiche attive per il lavoro», da sempre un tema critico per il nostro Paese in confronto ad altri contesti europei. Il nuovo piano che si chiama GOL - acronimo di “Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori” - scommette molto sulla formazione, e non solo di tipo tradizionale. «Stiamo vivendo un momento di grande trasformazione che richiede un investimento significativo sulle competenze formali e su quelle informali» necessarie per far fronte alla «duplice transizione», digitale ed ecologica.

 

Un articolo di

Katia Biondi

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