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Lo smart working è realtà, ma cerca ancora un equilibrio

06 ottobre 2023

Lo smart working è realtà, ma cerca ancora un equilibrio

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Risparmio di tempo e soldi. Soddisfazione per quelli che ne fanno ricorso. Benefici per chi ha elevati carichi di cura, come le donne. Accanto a questi indubbi vantaggi, non mancano, alcune criticità. Come la percezione che da remoto si lavori di più e che il lavoro agile “ideale” dovrebbe prevedere più giorni al mese rispetto al modello prevalente in cui ne sono possibili due a settimana lontani dall’ufficio. Sono alcuni degli aspetti attribuiti allo smart working da un campione di circa 1.000 lavoratori rappresentativi di oltre 18.000 dipendenti di otto importanti aziende di settori e dimensioni differenti che hanno preso parte al progetto di ricerca dell’Università Cattolica realizzato dal Laboratorio Swap (sigla che sta per smart working, welfare aziendale e partecipazione organizzativa).

Con l’obiettivo di indagare le prassi di “lavoro agile” e di welfare aziendale e, nello stesso tempo, di verificare se queste nascono o possono essere aiutate da processi di partecipazione organizzativa, lo studio è stato realizzato con il coinvolgimento delle aziende Allegrini, Deda Group, Ferrovie Nord Milano, Gruppo Gaser, Gruppo Iren, TD Synnex, Veritas, Sogei.

«È emerso che le realtà aziendali più performanti in termini di smart working e di welfare aziendale sono quelle con una identità ben definita, una ricchezza di componenti identitarie e un elevato orientamento al supporto organizzativo», spiega Luca Pesenti, direttore scientifico del Laboratorio Swap, con cui collaborano anche Claudio Lucifora, direttore del Centro di Ricerca sul Lavoro Carlo Dell’Aringa (Crilda), Claudia Manzi, docente di Psicologia sociale, e in qualità di project leader Giovanni Scansani, docente a contratto ed esperto di welfare aziendale e innovazione organizzativa. I risultati della prima annualità dell’indagine, presentati mercoledì 27 settembre nella sede di Milano dell’Università Cattolica, sono «una conferma del fatto che in questo ambito non esistono ricette magiche. Serve invece un forte impegno in azienda per trasformare gli strumenti dello smart working e welfare aziendale in reale benessere organizzativo», afferma Luca Pesenti.

Nello specifico dall’indagine risulta che nelle aziende coinvolte prevale un modello “ibrido” di smart working, basato su due giorni a settimana lontani dall’ufficio. In metà dei casi gli orari di lavoro sono standardizzati a ricalco su quelli della sede, mentre l’altra metà presenta una maggiore autonomia nei tempi di svolgimento della prestazione. L’aspetto più positivo è il risparmio di tempo e di soldi rispetto agli spostamenti casa-lavoro (punteggio 4,7 su 5). La valutazione della performance lavorativa tende a essere migliore tra chi utilizza il lavoro agile. Inoltre, le persone che hanno la possibilità di ricorrere allo smart working - indipendentemente dalle giornate concesse - mostrano livelli più elevati di impegno e di identificazione con l’organizzazione. Per quanti invece lo praticano in maniera full l’effetto positivo sembra essere significativo solo per le donne in condizioni di elevato carico di cura. Quanto agli aspetti negativi domina diffusamente la percezione di lavorare più del solito (3,5 su 5) e quella secondo cui il lavoro agile, per essere tale, dovrebbe prevedere più di 12 giorni al mese, con solo qualche presenza obbligatoria in sede.

Guardando ai dati relativi al fronte del welfare aziendale, appare chiaro che esso è pensato soprattutto come strumento a supporto del recruitment o per contenere il turnover di chi già lavora in azienda. I buoni spesa sono i benefit più utilizzati (64,8% dei rispondenti), seguiti dai servizi sanitari (25,4%) e di conciliazione cura-lavoro (18%). Elementi questi ultimi che sono una conferma di quella “deformazione” che porta a considerare il welfare aziendale più nella direzione del sostegno al reddito che non nella valorizzazione di specifici servizi.

Forse anche per questo da quasi il 60% dei rispondenti l’offerta è giudicata solo parzialmente adeguata al bisogno: si richiedono più aiuti per la conciliazione cura-lavoro, più formazione e più servizi per la salute e il benessere. La soddisfazione per il welfare è peraltro un significativo predittore della retention, dell’impegno lavorativo e dell’identificazione con l’azienda. Senza dimenticare che un buon welfare può tradursi di fatto in una sorta di compenso per le donne impossibilitate a lavorare da remoto, riducendo in questo modo la loro intenzione a lasciare l’azienda.

«Quanto, infine, al tema della partecipazione dei lavoratori all’organizzazione del lavoro (partecipazione diretta) - sostiene Pesenti - è molto interessante sottolineare come, rispetto ai dati raccolti all’avvio delle attività del Laboratorio, al termine della prima annualità della ricerca si nota da parte delle aziende una rinnovata e superiore attenzione nei confronti di questa “leva” dell’innovazione organizzativa che, anche grazie alla contaminazione tra le diverse esperienze espresse dalle aziende, è ora considerata un obiettivo verso il quale tendere nell’immediato futuro».

 


 

 

Foto di Christin Hume su Unsplash

Un articolo di

Katia Biondi

Katia Biondi

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