In questo quadro così articolato, s’inserisce l’Europa, che soprattutto nei momenti di stabilità internazionale ha dimostrato di essere «un grandissimo soggetto di politica internazionale». E questo grazie a quegli strumenti che sono divenuti anche un modello: il grande potere regolamentare dell’Unione europea, l’esistenza di un mercato unico, una politica commerciale di portata planetaria. Oggi però tutto questa non basta. L’Europa è chiamata a fare un «salto di qualità» oltre che sui tre beni pubblici fondamentali - ossia transizione digitale, ecologica e dell’energia - anche su un quarto: la difesa. Un primo passo in questa direzione è il ReArm Europe. Ma, per Benassi, il rischio è che sui due fronti di politica estera e di difesa l’Unione europea potrebbe procedere non con l’appoggio di tutti i 27 stati membri, ma secondo quella famosa struttura di geometria variabile dove sono ammesse non una ma due velocità.
Una spaccatura dell’Occidente che si riversa anche nella cooperazione internazionale. «Ne è un esempio la decisione degli Stati Uniti di cancellare circa l’80% degli aiuti umanitari e assistenza per lo sviluppo che da decenni fornisce a decine di paesi in tutto il mondo. Una scelta che potrebbe essere replicata anche da altri Stati», ha avvertito Fabio Melloni, consigliere tecnico per la cooperazione allo sviluppo, presidente della Fondazione Imagine Esg, con alle spalle una lunga esperienza in questo ambito. Di fronte a tali decisioni politiche diventa difficile parlare di speranza. Eppure, la cooperazione allo sviluppo è un esempio costante di come a guidare il cambiamento sia il fattore umano. «Durante la mia attività ho conosciuto persone che mi hanno fatto capire che la cooperazione è inventiva, creatività, sperimentazione di idee», è frutto di trasformazioni che partono dal basso, innescando un «processo virtuoso» capace di cambiare le cose. È così che si genera speranza, anche in contesti difficili. E le università sono il luogo ideale per formare «costruttori di pace» e «generatori di sviluppo».
Ma per “rianimare la speranza”, serve innanzitutto rifiutare la «logica hobbesiana» secondo cui fuori c’è un nemico da cui difendersi. Ne è convinto Riccardo Redaelli, docente di Storia e istituzioni dell’Asia, che insieme ai professori Simona Beretta, Laura Zanfrini, Mauro Magatti, tutti della Facoltà di Scienze politiche e sociali, ha animato la seconda parte dell’incontro. Per Redaelli la pace non è semplicemente «assenza di conflitti» e neppure «ricerca di una tregua a tutti i costi». È soprattutto «rimuovere le radici stesse del conflitto» perché, ha osservato, affidandosi alle parole della “Fratelli tutti” di papa Francesco, la «pace la costruisce ognuno di noi», e ciascuno deve lavorare per renderla possibile.
Da questo punto di vista, ha ragione Simona Beretta, docente di Politica economica, nell’affermare che la «speranza di cui abbiamo bisogno e che fa bene al mondo» deve avere in sé buone dosi di «razionalismo e realismo». Guardare il futuro con ragionevolezza vuol dire cambiare le condizioni dell’indebitamento dei paesi più poveri (nel 2023 ammontava a 97 trilioni di dollari). La pace, infatti, ha a che fare anche con condizioni dignitose di vita. Pertanto, ha precisato Beretta, è necessario «ripensare l’architettura finanziaria globale». Un ripensamento che non può fare a meno di ascoltare la voce di chi «carico di speranza» si muove alla ricerca di una vita migliore. Sono i migranti a cui ha cercato di dare la parola nel suo intervento Laura Zanfrini, docente di Sociologia generale, leggendo alcune loro toccanti testimonianze. «Far parlare i migranti significa umanizzarli, interpretare in maniera corretta la diversità e riscoprire i valori delle nostra società, al di là della omogenea rappresentazione su cui queste sono state costruite, cogliendo così il potenziale generativo del pluralismo».
Di qui l’importanza della speranza che nella «crisi entropica» che stiamo vivendo può aiutare a rimetterci laddove non siamo più, ovvero in quella che il sociologo Mauro Magatti ha definito la «struttura relazionale del vivente». «La speranza aiuta non solo a pensare ma anche ad agire diversamente, a recuperare l’idea di azione». Secondo Magatti siamo ossessionati tutti con il produrre, invece è l’agire - che significa essere, far essere e diventare - a farci scoprire la vera speranza, quella che chiama in causa il pensiero e l’azione. Quale modo migliore allora per descriverla se non le parole di Havel che il docente di Sociologia generale della Cattolica ha rievocato: “La speranza non è ottimismo. La speranza non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un significato”.