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Giacomo Matteotti, un italiano diverso

22 gennaio 2025

Giacomo Matteotti, un italiano diverso

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Giacomo Matteotti è tristemente famoso per la sua morte. A scuola, si insegna che il suo delitto segnò una spaccatura nella storia politica italiana. Dopo il suo assassinio, il fascismo gettò la maschera mostrandosi per quello che era: un regime autoritario. Tuttavia, il leader socialista andrebbe ricordato soprattutto per la sua vita. Ne è convinto lo storico Gianpaolo Romanato che al politico del Polesine, terra da cui egli stesso proviene, ha dedicato in occasione del centenario dell’uccisione, la biografia “Giacomo Matteotti un italiano diverso”, edita da Bompiani. Lunedì 20 gennaio, il volume - frutto dell’ampliamento di un lavoro precedente dell’autore – è stato presentato all’Università Cattolica del Sacro Cuore, nella sede di Milano, grazie all’iniziativa del Dipartimento di Storia dell'economia, della società e di scienze del territorio "Mario Romani" e dell’omonimo archivio, del Dipartimento di Scienze politiche e di Polidemos.

Introdotta da Daniele Bardelli, professore associato di Storia contemporanea, e Antonio Campati, ricercatore di Filosofia politica, la presentazione è stata l’occasione per una riflessione su alcuni nodi della storia e della politica italiane. Tra questi, come è stato notato, va considerato il mancato incontro tra socialisti e cattolici, un incontro che non avvenne allora e che tante volte è stato rimandato nella storia del nostro paese, con esiti anche tragici. Ma nella vicenda di Matteotti, si può anche vedere, come ha notato Campati, «la ricorrente oscillazione nel nostro Paese tra leggi elettorali diverse» (Matteotti fu eletto con un sistema proporzionale la pima volta e maggioritario l’ultima). Mentre su un piano più storico, la parabola del leader socialista mostra anche il fallimento di un progetto politico: «quello di un riformismo che non escludendo a livello teorico la violenza finì con lo sdoganarla, rendendo plausibile la reazione», come ha sottolineato Bardelli.   

Nato il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine (provincia di Rovigo), da una famiglia di commercianti e proprietari terrieri che avevano fatto una certa fortuna, Giacomo Matteotti rinunciò a una carriera accademica sicura per dedicarsi alla politica. Impegno che esercitò inizialmente e con una dedizione totale esclusivamente nel suo territorio di origine. Fino al termine della Prima guerra mondiale, Matteotti fu «un attivissimo ma oscuro amministratore locale, lontano dalla ribalta nazionale», ha sottolineato Romanato. Entrato nel Consiglio provinciale, eletto sindaco e assessore nei Comuni dove aveva le sue proprietà per effetto di una legge elettorale ancora per censo, si occupò dei problemi concreti della sua gente: per lo più braccianti che non sapevano leggere né scrivere e a volte morivano letteralmente di fame, come il volume di Romanato documenta nel primo sconvolgente capitolo.  


Furono proprio queste esperienze, più che i testi teorici che pure conosceva a far maturare nel futuro leader e segretario di partito quel tipo particolare di socialismo che l’autore del saggio, definisce «pedagogico», volto cioè a emancipare le classi popolari dalla loro subalternità non solo materiale ma anche spirituale. In nome di questo ideale, Matteotti si impegnò per la diffusione dell’istruzione, promosse nelle campagne del Polesine l’organizzazione del sindacato agricolo delle Leghe, si impegnò per alimentare il senso di appartenenza a una dimensione collettiva che individuava nel Comune prima che nello Stato. Antimilitarista, contrario all’ingresso dell’Italia in Guerra, durante il conflitto fu costretto ad una specie di esilio in Sicilia. Entrò in Parlamento nel 1919, in seguito alle prime elezioni con sistema proporzionale e a suffragio universale maschile. Rieletto nel 1921 e nel 1924, nei quattro anni e mezzo in cui fu deputato, Matteotti non si risparmiò. Infaticabile, rigoroso, pronunciò 106 discorsi, tutti documentatissimi e lontani dalla retorica svolazzante e immaginifica dell’epoca.

L’ultimo discorso fu quello famosissimo del 30 maggio 1924, nel quale denunciò i brogli e le violenze commesse dai fascisti durante la recente consultazione elettorale. Come è noto, c’è chi sostiene che fu proprio ciò che disse quel giorno a spingere il regime fascista a ordinarne il rapimento, nel corso del quale fu ucciso, il 10 giugno. Romanato sposa invece una seconda tesi: a costargli la vita fu piuttosto ciò che non riuscì a dire. Benché le carte non siano state mai trovate, riconosce lo studioso, «sappiamo che Matteotti stava raccogliendo della documentazione sul pagamento di tangenti da parte di una società petrolifera americana in cambio dell’autorizzazione a una serie scavi sul territorio italiano». Una sporca operazione di finanziamenti illeciti e corruzione, insomma, «che arrivava a lambire la figura di Mussolini e avrebbe messo a nudo anche le responsabilità della Corona». L’11 o il 13 giugno era in programma alla Camera un suo intervento, in cui si temeva avrebbe potuto rivelare quello che sapeva. Secondo Romanato sarebbe stata dunque l’urgenza di impedirgli di parlare a far commettere ai suoi rapitori alcuni clamorosi errori, come quello di utilizzare per il sequestro la stessa auto con la quale nei giorni precedenti lo avevano pedinato nel tragitto da Montecitorio a casa. Il passaggio insolito di quell’auto, infatti, spinse il portiere del palazzo a prendere nota del numero di targa grazie al quale gli inquirenti poterono facilmente risalire ai responsabili.

Intransigente verso gli altri e anche verso sé stesso, Matteotti fu sempre una figura divisiva. Mitizzato per le circostanze in cui fu ucciso, che ne fecero martire illustre del fascismo, fu a lungo dimenticato. Ostracizzato dai comunisti durante la Prima repubblica, («tanto che Einaudi, all’epoca la casa editrice di riferimento del Pci, rifiutò di pubblicare una raccolta dei suoi scritti», ha ricordato Romanato) entrò nel Pantheon dei socialisti tardivamente all’inizio degli anni Settanta per iniziativa di Sandro Pertini, allora presidente della Camera.

Colto, meticoloso, capace di lottare anche contro gli interessi della classe sociale di appartenenza, in nome di un ideale politico che coltivava con ardore religioso (utilizza spesso nei suoi scritti l’espressione «fede socialista», ha fatto notare Romanato), Matteotti fu un italiano atipico, da qui il titolo della biografia. Proprio per questa originalità andrebbe studiato non solo per come morì ma anche per come visse.    

Un articolo di

Francesco Chiavarini

Francesco Chiavarini

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