NEWS | Il conflitto

Guerra in Ucraina, tra vie d’uscita e scenari futuri

01 aprile 2022

Guerra in Ucraina, tra vie d’uscita e scenari futuri

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«Capire se e in che modo le misure adottate dagli stati e dalle organizzazioni internazionali attraverso i loro organi, anche giurisdizionali, nel corso della crisi ucraina costituiscano una prassi destinata a modificare il contenuto del diritto internazionale da un lato, e ad incidere sull’integrazione europea dall’altro». E «solo una prospettiva genuinamente interdisciplinare permette un’analisi di questo tipo». Francesca De Vittor, docente di Diritto internazionale, ha spiegato con queste parole le ragioni che l’hanno portata a organizzare lunedì 28 marzo, con l’Istituto di studi internazionali dell’Università Cattolica e la Società italiana di diritto internazionale e di diritto dell’Unione europea, il convegno “Guerra in Ucraina: vie d’uscita e scenari futuri”.

Un simposio ricco di contributi scientifici che, attraverso il confronto di storici, economisti, esperti di relazioni internazionali e giuristi di diversi atenei nazionali, ha fornito elementi preziosi per interpretare un contesto mondiale in rapido cambiamento. Filo conduttore di tutti gli interventi, come puntualizzato da Pasquale De Sena, dell’Università di Palermo, il rapporto tra politica tout court e altre dimensioni - economica, energetica -, che porta alla luce un fatto: che forse è giunto il momento di mettere in discussione il modello giuridico-politico cui da sempre siamo abituati.

Un articolo di

Katia Biondi e Agostino Picicco

Katia Biondi e Agostino Picicco

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La Russia, gli oligarchi e l’efficacia delle sanzioni

 

La guerra tra Russia e Ucraina, infatti, sta scompaginando gli attuali equilibri geopolitici, economici, giuridici finora disegnati. Come siamo arrivati a questo punto? A fare chiarezza è Ronald Car, storico delle istituzioni ed esperto dell’est Europa all’Università di Macerata. «Sia Russia sia Ucraina nascono trent’anni fa con Boris Eltsin e Leonid Kravchuk». Il riferimento è agli accordi di Minsk del 1991 allora «possibili», ha spiegato il professor Car, «perché le agende politiche dei due presidenti erano identiche»: spazzare via il progetto federale di Gorbaciov e procedere con il programma di privatizzazione. Col tempo ha preso piede una forte «incompatibilità» tra i due stati «radicata nel rispettivo percorso di nation building e nel modo in cui si sono riposizionati nel mondo politico ed economico». Ma se l’Ucraina corrisponde al «modello egemone dell’odierna globalizzazione», la Russia, invece, col «nesso tra potere politico e oligarchi» rimanda a un «modello che esula dal nostro spazio di esperienza». Gli oligarchi, tuttavia, vista la loro «dipendenza totale dallo status quo politico», per quanto siano colpiti dalle sanzioni, «hanno ben più da perdere ponendosi contro Putin». Accanto agli oligarchi, però, c’è anche un gruppo di uomini forti che considerano l’economia uno «strumento dello stato» e non si preoccupano delle sanzioni occidentali. Pertanto, l’«incombente isolamento» e il «ritorno forzato» degli oligarchi in Russia costituiscono «un vantaggio strategico perché autarchia e isolamento facilitano la repressione».


Le sanzioni, dunque. Sono veramente efficaci? «Affinché lo siano devono essere mirate e per poterle mirare in maniera adeguata bisogna conoscere l’interdipendenza reale e finanziaria che caratterizza il paese sanzionato», ha osservato Marco Lossani, docente di Economia internazionale. Per essere incisive è fondamentale che «siano condivise dal maggior numero di paesi possibile». La combinazione di questi due elementi dovrebbe comportare la massima efficacia possibile del processo sanzionatorio». Ma nella realtà dei fatti le circostanze sono più «complicate». A dimostrazione di ciò basterà ricordare che tutte le verifiche empiriche condotte sul tema hanno dimostrato come l’effettiva efficacia delle sanzioni sia risultata inferiore a quanto originariamente previsto. Inoltre, è interessante considerare quanto accaduto in Russia dopo l’introduzione di sanzioni successivamente all’invasione della Crimea.


La Russia ha cominciato a porre in essere una strategia di introversione, basata sul tentativo di raggiungere una certa autosufficienza alimentare unita a una certa autosufficienza finanziaria. Il risultato? Alla fine del 2021 poteva contare su oltre 630 miliardi di dollari in riserve ufficiali che «sembravano averla messa nella condizione di fronteggiare molto bene sanzioni di vario tipo». Eppure, non è stato così, anche perché oltre la metà delle riserve ufficiali sono risultate “congelate” in conseguenza dei provvedimenti presi da USA, UK e UE, che hanno di fatto sospeso la foreign sovereign immunity goduta dalle riserve di proprietà della Banca Centrale russa. Il rublo sui mercati valutari è crollato, con un’entità di deprezzamento che si aggira attorno ai 30/50 punti percentuali, la Banca centrale russa è intervenuta pesantemente sui tassi di interesse, il rating del debito sovrano è notevolmente diminuito. Non solo, le previsioni per la Russia emanate da diverse case di investimento con riferimento all’anno 2022 stimano una caduta di Pil di almeno il 15%. Quanto allo scenario economico internazionale, «il mondo, si trova a vivere, da un lato, l’effetto di un classico shock di stagflazione dovuto al rincaro delle materie prime, che sono la conseguenza ultima del conflitto russo-ucraino, dall’altro, la possibilità che incominciamo a rivivere per l’ennesima volta una situazione di deglobalizzazione molto spinta».

La sicurezza energetica e il cambiamento ecologico in Europa

A fare da sfondo la questione spinosa della fornitura del gas. «L’Unione europea è fortemente dipendente dalla importazione di fonti fossili, in particolare di gas naturale dalla Russia», ha specificato Andrea Prontera, professore di relazioni internazionali all’Università di Macerata. «Una dipendenza» che è il «risultato di politiche di diversificazione dei paesi europei dopo gli shock petroliferi» che hanno portato alla nascita del mercato euroasiatico di gas naturale. Tuttavia, all’indomani dello scoppio della guerra, ci sono due date che rappresentano una sorta di “rivoluzione copernicana” nell’ambito delle politiche di sicurezza energetica nella Ue. La prima è l’8 marzo con il lancio del progetto RePower Eu. «Per la prima volta la Commissione europea ha messo nero su bianco l’obiettivo di eliminare entro il 2030 la dipendenza delle fonti fossili dalla Russia» tramite una serie di strumenti: diversificazione degli approvvigionamenti, efficienza energetica, investimenti nelle rinnovabili e nel settore dell’idrogeno. La seconda è il 25 marzo: il Consiglio europeo, oltre a ribadire quanto sottoscritto dalla Commissione, aggiunge sul piatto altri due elementi: la creazione di un meccanismo volontario per l’acquisto del gas e il price cap, un tetto al costo del gas all’interno dell’Unione europea. Tuttavia - e la storia recente ne è testimone - realizzare questi progetti per l’energia non è facile. Alla base di una «politica di sicurezza energetica» servono alcuni elementi che all’Unione europea sono sempre mancati: il «gas naturale», una «politica estera unitaria» e le «grandi imprese», i cosiddetti campioni nazionali.

«Dipendenza energetica e processo climatico sono profondamente intrecciate», ha fatto eco Michele Grillo, docente di Economia politica. Nel processo del cambiamento ecologico da sempre in Europa c’è stato un punto fermo nella discussione: considerare il «gas un combustibile indispensabile per la transizione». E questo per diverse ragioni. Intanto, «il gas fa combaciare produzione e fabbisogno dell’energia più di altre fonti, in particolare di quelle rinnovabili», ha precisato il docente della Cattolica. Inoltre, «nella combinazione di prezzo e incidenza dell’inquinamento il gas si è presentato come quello a costo relativo più basso». Questo spiega perché nel tempo per molti paesi europei le relazioni di lungo periodo con la Russia si sono rafforzate e sono diventate «la base su cui far leva per garantirsi sicurezza nell’approvvigionamento», riflettendosi in ciò una inadeguatezza del disegno politico di attuazione delle strategie di liberalizzazione. Cosa è possibile fare in tempi ravvicinati in Europa? «Le valutazioni più ottimistiche dicono che un’effettiva sostituzione del gas russo con altre fonti non arriverebbe a bilanciare che un 1/3 dell’attuale approvvigionamento dalla Russia in un periodo di tempo inferiore a 5 anni». Ciò «ci pone di fronte a una difficile scelta, perché intensificare le tensioni con una Russia con cui in futuro dovremo poter pensare a relazioni diverse da quelle attuali significa anche accettare oggi il costo di un rallentamento del processo di cambiamento ecologico, che potrebbe essere molto elevato nella prospettiva interna europea».

La guerra, l’uso della forza e la difesa europea

Dalle questioni economiche a quelle di natura strettamente giuridica. A entrare nel merito è stato Maurizio Arcari, dell’Università di Milano Bicocca, parlando dell’uso della forza da parte di tutti gli attori coinvolti nella guerra: la Russia come stato aggressore, l’Ucraina come aggredito e la comunità internazionale nelle sue varie reazioni, e su come esso sia destinato a incidere nello scenario futuro dell’ordinamento internazionale. «Il concetto giuridico di legittima difesa ha fatto da cappello utilizzato dagli stati per giustificare l’operazione di difesa sia come legittima difesa preventiva sia come tutela degli interessi essenziali dello stato che può difendersi quando deve tutelare alcune sue prerogative».

Ecco perché, ha indicato Massimo Starita, dell’Università di Palermo, «la guerra ci mostra un nuovo assetto politico, diverso da quello egemonico degli ultimi 30 anni rivisitando da parte dell’ONU il modo di intendere il concetto di pace e di sicurezza internazionale e l’orientamento politico complessivo del Consiglio di sicurezza». Il docente ha poi analizzato gli aspetti istituzionali relativi alla natura del coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza con il diritto di veto e dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite con le due risoluzioni di condanna dell’aggressione. Sono così emersi i limiti della difesa comune europea, il ruolo della NATO per la difesa europea, con la conseguente dipendenza da scelte funzionali ad interessi degli Stati Uniti più che dell’Europa, il riavvicinamento tra Russia e Cina.

In qualunque modo finirà questa guerra, gli scenari che ne deriveranno, interrogheranno l’Europa sul piano della sicurezza militare. «Si nota l’assenza di una difesa europea, che pare a rimorchio dell’America. È utile una maggior coerenza nelle situazioni in atto per definire nuovi modi e mezzi per migliorare le capacità militari e ottenere mandati per missioni più flessibili e un processo decisionale rapido negli aspetti militari», ha affermato Antonio Tanca, docente di European Union Common and Security Defence Policy all’Università Milano Bicocca.

Dalla direttiva sulla protezione temporanea al ruolo dei giudici internazionali

A pagare il prezzo più alto della guerra resta la popolazione civile: ferita, bisognosa, in fuga. Di rilievo, allora, nell’ambito dei discorsi di diritto e di strategia militare, quello della solidarietà europea manifestata con lo scoppio della guerra. Non a caso, per la prima volta dalla sua adozione nel 2001, è stata attivata la direttiva sulla protezione temporanea. «L’accoglienza dei profughi ucraini per la prima volta ha ampliato il concetto di cooperazione europea verso una evoluzione più solidale tra gli stati europei caratterizzata da una maggiore apertura. I governi si sono dimostrati coesi verso l’accoglienza, e non invece per chiudere le frontiere, cosa straordinaria mai accaduta prima», ha sottolineato Chiara Favilli, dell’Università di Firenze, illustrando i temi della cooperazione e dell’accoglienza dei profughi. «Lo status di beneficiario di protezione temporanea è rinnovabile, consente il godimento dei diritti, l’attività lavorativa, l’assistenza sociosanitaria. L’accoglienza ha assunto la funzione di uno strumento di sostegno e solidarietà non solo verso le persone, ma a favore dello stato ucraino». Questa vicenda può costituire un precedente utile per capire come si distribuiranno i flussi migratori nell’ambito di una autentica politica migratoria europea ispirata ai valori fondanti dell’Unione, tuttavia, precisa la professoressa Favilli, il carattere eccezionale della vicenda Ucraina rende difficoltoso immaginare una generalizzazione di questa esperienza.

 

Finora, i tentavi di ricorso a giurisdizioni internazionali per risolvere la controversia militare non sono mancati. A esporli è stata Micaela Frulli, dell’Università di Firenze, che si è concentrata in particolare sulla competenza della Corte internazionale di giustizia e della Corte penale internazionale. Di solito, mentre tuonano le armi, il giudice si fa da parte, ma l’Ucraina ha proposto un ricorso alla Corte internazionale di giustizia che si è pronunciata con una ordinanza sulle misure cautelari in cui ha riaffermato i valori fondamentali della convenzione sul genocidio, e il ruolo della Corte stessa, in quanto organo giudiziario principale delle Nazioni Unite, anche nell’ambito del mantenimento della pace. «Si è valorizzato l’ordine giuridico esistente e il ruolo dei giudici internazionali come guardiani di questi valori quando il sistema è messo a dura prova».

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