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L’olio italiano, buono e sostenibile ma acerbo nella comunicazione

29 luglio 2021

L’olio italiano, buono e sostenibile ma acerbo nella comunicazione

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Protagonista indiscusso della dieta mediterranea e prodotto simbolo del made in Italy, l’olio d’oliva è anche sinonimo di sostenibilità. Eppure per le aziende nostrane produttrici d’olio conta ancora poco “essere sostenibili” e ancora meno saperlo comunicare. È uno dei paradossi che caratterizza il settore olivicolo-oleario italiano, tra i principali attori del sistema agroalimentare nazionale. Non a caso il comparto oleario, con i suoi oltre 3 miliardi di euro di fatturato, partecipa per il 3,2% al totale dell’industria alimentare italiana (Ismea 2020).

È quanto emerge dalla ricerca “Il paradosso dell’olio d’oliva: prodotto sostenibile, comunicazione acerba”, a cura dell’Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica (Altis) e condotta da Stella Gubelli e Valentina Bramanti su un campione di 43 aziende operanti nella produzione e commercializzazione dell’olio d’oliva con un fatturato superiore ai sei milioni di euro.

Dall’indagine risulta che il 58,1% delle aziende sia ancora ai primissimi passi o non abbia ancora preso coscienza di come la sostenibilità possa portare valore aggiunto sia nei processi aziendali che nelle relazioni con gli stakeholder. Solo il 7% del campione, poi, è pienamente consapevole di come la sostenibilità possa costituire un vantaggio competitivo differenziante.

Altra nota dolente è rappresentata dalla comunicazione: la maggior parte delle aziende all’interno del proprio sito non comunica alcuna informazione riguardante la sostenibilità (16%) oppure lo fa in maniera incompleta, poco approfondita e non strutturata (47%). Inoltre se il 37% del campione ha una sezione dedicata alla sostenibilità, di questo esclusivamente il 14% ne presenta una che contempla in modo approfondito diverse tematiche, dimostrando una vera presa di coscienza rispetto al valore della sostenibilità.

Quanto ai temi di sostenibilità presidiati e comunicati, il maggior impegno delle aziende è concentrato su pratiche relative qualità e sicurezza dei prodotti (74,4%), tracciabilità e trasparenza (41,9%), salute e sicurezza dei lavoratori (41,9%), approvvigionamento responsabile (39,5%),  gestione energetica (39,5%) e attenzione ai temi del consumo consapevole e dell’educazione alimentare (37,2%).

«Nel Belpaese, il settore dell’olio d’oliva è estremamente complesso e caratterizzato da poli differenti», spiegano le ricercatrici che hanno condotto lo studio. «Da un lato, i pochi grandi player industriali, attivi prevalentemente nella selezione delle colture, nell’imbottigliamento e nella distribuzione, grazie anche al rapporto con la Gdo, stanno lentamente iniziando a comprendere il ruolo della sostenibilità e a fare i primi passi per integrarla nella propria strategia e comunicazione; dall’altro lato, una pletora di Pmi, poco strutturate e non operanti nella Grande Distribuzione, si differenziano per una sostenibilità aziendale più genuina e intrinseca, non formalizzata e poco comunicata ma strettamente ancorata al territorio». Tuttavia, continuano le ricercatrici, «fare affidamento unicamente sulla naturale sostenibilità del prodotto rischia di non essere sufficiente a trasmettere ai consumatori e agli stakeholder tutto il valore racchiuso in una piccola goccia d’olio».

Ecco perché è necessario un cambio di passo, una presa di consapevolezza di concerto, che coinvolga e faccia convergere tutti gli attori del settore, grandi o piccoli, verso la valorizzazione sostenibile della filiera e dell’eccellenza di prodotti e processi. «Crediamo che la sostenibilità non debba essere intrinsecamente affidata al prodotto, ma debba coinvolgere l’operato aziendale ed essere misurata e rendicontata. Sempre più interlocutori esterni, per esempio banche e investitori, valutano le aziende anche con il filtro della sostenibilità per dare accesso a capitali e finanziamenti».

 

Un articolo di

Katia Biondi

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