«Bisogna esporsi» pungola Pasolini in un testo giovanile scritto di fronte a un crocifisso che lo inquieta. «Bisogna esporsi… questo insegna / il povero Cristo inchiodato?» sono versi e interrogativi che conservano la loro drammaticità autobiografica anche nello scrittore maturo e sino alla laica Passione finale quando, dopo essere stato bastonato in una notte, il suo cuore è schiacciato da un’auto in fuga.
Passando oggi davanti a uno dei murales che in alcune metropoli riproducono la Pietà pasoliniana, ad opera di Ernest-Pignon-Ernest, restiamo scioccati dal modo in cui lo street artist ha ritratto l’intellettuale tenere in braccio se stesso morto. E comprendiamo quanto l’immagine della crocifissione sia davvero una «dichiarazione di poetica e programma di vita insieme» del Pasolini personaggio secondo la definizione di uno dei suoi primi interpreti, Gian Carlo Ferretti.
«Siete in ritardo figli» è una delle provocazioni rivolte ai giovani che ancora meritano d’essere discusse nel centenario della nascita di un autore che ai giovani ha dato molto nel segno della rivoluzione e dell’essere maestro, avendo la figura eretica e laica di Gesù a fare da guida accanto a Marx, Gramsci e i classici. Perché la forza dell’autore di Una vita violenta sta proprio nella sua stessa vita (e opera) da giovane.
Tutto inizia con il bambino Pier Paolo nella friulana Casarsa. Una pagina dei Quaderni rossi lo fotografa turbarsi di fronte alla visione di Cristo crocifisso quasi nudo, tra morbosità e spiritualità, arrivando a immedesimarsi in lui inchiodato ed esposto. Così «quel pubblico martirio finì col divenire un’immagine voluttuosa e un po’ alla volta fui inchiodato col corpo interamente nudo».
Ma i contrasti nascono subito col padre, ufficiale di fanteria di Bologna, dove nasce per iniziare un continuo peregrinare seguendo i trasferimenti paterni, tornando per liceo e università nel capoluogo emiliano, dove coltiva due passioni: il calcio (ala destra chiamato “Stukas”, è segretario della squadra di Lettere) e la lettura come habitué delle bancarelle di libri usati sotto il portico della libreria Nanni. Frequenta il Cineclub e un critico d'arte che lo segna per l’esperienza cinematografica, Roberto Longhi. Ha sempre nel cuore la lingua friulana e raccoglie le sue prime Poesie a Casarsa in un libretto a sue spese notato da Contini. Sono gli anni della guerra in cui il fratello Guido si unisce alle formazioni partigiane della Carnia restando ucciso dal fuoco comunista. Poi il dopoguerra significa poesia, insegnamento e militanza nel Pci di Casarsa, che lo espelle quando ha la prima denuncia per atti osceni e corruzione di minori: «generazione felice / a dispetto del Sesso e Dio / quando fui sul punto di perdermi» scrive nella seconda opera, L’usignolo della Chiesa cattolica, ancora oggi una lettura forte.
Consapevole di essere una sorta di “poeta maledetto”, ventottenne scappa lontano dal Friuli, a Roma, con la sola madre Susanna, costretta a fare la cameriera, avviando il suo cammino di intellettuale organico con un piede nell’eresia, collezionando 33 denunce come quella per Ragazzi di vita (con l’esclusione dai premio Strega ma il “salvataggio” in tribunale da parte di Ungaretti e Bo). Diventa un punto di riferimento eppure per lui «il successo non è niente; è l'altra faccia della persecuzione». Al di là degli errori e delle scelte non condivisibili di chi «divora l’esistenza con un appetito insaziabile», la sua giovinezza è un invito a «esporsi», osare, impegnarsi fino in fondo nella rivoluzione come cambiamento reale da parte dei giovani, «esseri adorabili, pieni di quella sostanza vergine dell'uomo che è la speranza, la buona volontà».
Tra etica ed estetica ha narrato Il sogno di una cosa (un suo titolo) mischiando fango e cielo sempre con un’ansia didattica, alcune volte ideologica, altre volte giornalistica, comunque mai conformista, per esempio nelle Lettere luterane contro un’educazione consumistica dei giovani «data dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica… e allora a essere educata è la carne fisica come forma dello spirito». È c’è stata «pedagogia», come ha Zanzotto, anche nella morte di Pasolini, trovato quella mattina del novembre 1975 su una strada accidentata che porta a un campo di calcio amatoriale, sul lungomare di Ostia, con ferite alla testa e al torace. Aveva scritto: «voglio morire di umiliazione» e «finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente». Così ha realizzato quel sogno morboso e spirituale di immedesimazione nello scandalo della croce di Cristo. E si vorrebbe che comparisse in questi giorni anche vicino alla nostra università un murales con la stessa Pietà vista altrove: con Pasolini che tiene in grembo lui stesso morto non soltanto per «esporsi» ma, è un suo verso, «per testimoniare lo scandalo».