A che cosa serve una laurea in un mondo fluido, nell’epoca delle conoscenze “fai da te”, quando il sapere sembra sulla punta delle dita, accessibile attraverso dispositivi sempre più piccoli e potenti? E, più che altro, serve ancora? Serve davvero?
È la domanda posta alle rettrici e ai rettori di quattro atenei milanesi – Francesco Billari (Università Bocconi), Anna Maria Fellegara (prorettore vicario dell’Università Cattolica), Valentina Garavaglia (IULM) e Donatella Sciuto (Politecnico di Milano) – all’apertura di “Persone & Talenti”, evento promosso dal Corriere della Sera e dedicato al lavoro e all’employer branding, svoltosi il 18 e 19 giugno nel cuore di Milano, nella storica sede ottocentesca del SIAM: la Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri che prepara al mondo del lavoro gli italiani da prima ancora che l’Italia esistesse.
Un interrogativo – sollevato dal vicedirettore Daniele Manca e dal caporedattore delle pagine economiche del quotidiano Nicola Saldutti – usato come esca per far emergere altri temi cruciali: l’evoluzione del sistema universitario, il rapporto tra le discipline, il confronto con le nuove generazioni.
Secondo Donatella Sciuto, la risposta è chiara: «La laurea serve, ma soprattutto serve l’università, perché insegna a formarsi continuamente. Una capacità decisiva, soprattutto per chi lavora con la tecnologia, dove non si smette mai di aggiornarsi».
Un punto condiviso da Valentina Garavaglia, che ha sottolineato come la laurea offra «profondità di pensiero» e rappresenti la base per uno sguardo lungo sul proprio percorso professionale: «Può anche non servire, se la destinazione è vicina. Ma se si vuole andare più lontano, la laurea dà l’abbrivio necessario».
Di pensiero critico e senso civico ha parlato Anna Maria Fellegara: «La laurea è centrale, non tanto per il titolo in sé, ma per il processo che implica. Una comunità educante come l’università insegna a mettere in discussione i punti di vista, a lasciarsi interrogare, anche dalle domande scomode. Nessun percorso di apprendimento individuale può farlo». Inoltre, ha aggiunto: «L’università trasmette il senso della responsabilità legato al sapere condiviso, indispensabile per chi ambisce a diventare classe dirigente – che si tratti di guidare un’azienda, uno studio professionale, una scuola o semplicemente la propria vita».
Francesco Billari ha spostato l’attenzione sul contesto italiano: «Siamo sotto il 30% di laureati, contro il 50% dei Paesi più avanzati dell’Ocse. In Corea e Giappone si arriva al 60%. Eppure, i dati parlano chiaro: anche in Italia l’83% dei laureati trova lavoro, contro il 73% dei diplomati. Studiare aumenta le opportunità individuali e collettivamente serve ad accrescere la competitività di un Paese».
Il punto, dunque, non è tanto se serva o meno la laurea, ma se le università riescano a stare al passo con l’innovazione. Un tema urgente per l’Italia, dove il disallineamento tra formazione e mercato del lavoro costa 44 miliardi, come ha ricordato Nicola Saldutti. E dove, ha sottolineato Daniele Manca, spesso si fa fatica ad allocare bene le risorse.
«Comprendere le richieste future della società mentre si preparano i professionisti che il mercato vuole oggi non è solo una sfida di questi tempi, ma è sempre stato il problema delle istituzioni universitarie», ha osservato Fellegara. «Per affrontarlo serve una comunità scientifica integrata, capace di dialogare e interrogarsi. E questo è un punto di forza del sistema italiano».
Secondo Donatella Sciuto, una delle chiavi è la «contaminazione tra le discipline», fondamentale per affrontare sfide complesse come la transizione digitale e verde o l’intelligenza artificiale.
Durante la tavola rotonda c’è stato spazio anche per riflettere sui giovani. Valentina Garavaglia li vede meno decisi rispetto al passato: «Partecipano all’open day per un corso in comunicazione, ma allo stesso tempo stanno considerando Veterinaria. Entrano per esplorare diverse possibilità».
Una dinamica in parte legata al carattere generalista della scuola italiana. Francesco Billari ha ricordato che i tre quarti degli iscritti all’università provengono dai licei, dove però non si insegnano materie come economia o diritto – eppure sono proprio queste le discipline accademiche più frequentate.
Tuttavia, questa apparente indecisione può anche rivelare un’esigenza di maggiore flessibilità. «A me questi ragazzi piacciono moltissimo – ha affermato Anna Maria Fellegara –. Forse non hanno già deciso tutto, ma hanno imboccato un primo bivio importante: tra lavoro e studio, hanno scelto lo studio. Poi costruiscono sartorialmente le loro competenze. È fondamentale dire loro che si può sbagliare: un errore si può correggere. La bussola dell’orientamento si deve poter consultare non solo all’inizio del viaggio, ma anche durante il tragitto».