Un euro investito in ricerca clinica genera un beneficio di circa tre euro per il Sistema Sanitario Nazionale. È uno dei tanti dati di contesto emersi durante “Leader ma non lo sappiamo. La ricerca clinica in Italia”, incontro organizzato durante il Meeting di Rimini. Il quadro per quanto riguarda l’Italia mostra diversi punti di eccellenza ma anche diversi problemi strutturali, che vanno sanati il prima possibile per evitare il collasso della nostra sanità pubblica.
A cominciare dall’emigrazione dei giovani ricercatori: i laureati formati dal sistema italiano sono bravi e competitivi ma spesso scelgono di lavorare all’estero perché lo ritengono più attrattivo. Secondo Maria Chiara Carrozza, presidente del Centro Nazionale delle Ricerche la parola chiave è leadership: «I nostri vanno all’estero perché vogliono essere leader della ricerca. I giovani hanno bisogno di libertà, finanziamenti e infrastrutture. Questo chiedono e non si fanno problemi a cercare uno scenario favorevole all’estero. Per cominciare a trattenerli occorre avere coraggio nell’affidarli responsabilità»
Se quanto sottolineato da Carrozza richiede un cambio di passo soprattutto dal punto di vista culturale, sul tema delle risorse sicuramente il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza può venire in aiuto agli investimenti in ricerca clinica: «Il PNRR è una sorta di Piano Marshall per la nostra ricerca, un’opportunità che non possiamo permetterci di sperperare -ha sottolineato Franco Locatelli, professore di Pediatria Generale e Specialistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e presidente del Consiglio Superiore di Sanità-. Per non sprecarla occorre usare occorre dare a questa nostra gioventù così straordinariamente formata prospettive di impiego. Ogni risorsa impiegata in politiche di tutela della salute deve essere poi resa stabile perché ogni euro speso in realtà è un euro investito».
Locatelli ha poi tracciato lo scenario delle frontiere su cui si sta orientando la ricerca clinica: «Oggi le frontiere sono: medicina personalizzata, farmaci viventi, chirurgia molecolare e occorre tenere presente la possibilità di accesso alle terapie per chi vive in paesi meno floridi del nostro. Facciamo sì che questo mondo sia connotato da uguaglianza senza disparità territoriali».
Per Marcello Cattani, presidente Farmindustria: «Il rischio che abbiamo è quello di gestire la ricerca con le regole del passato e questo è un boomerang. Pubblichiamo pochi brevetti, dobbiamo fare sì che se ne pubblichino di più. Servono nuove regole. Oggi l’Ema approva un nuovo farmaco: in Germania è disponibile dopo due mesi, in Italia dopo quattordici».
Secondo Paola Burioli, dirigente alla Ricerca e innovazione, trasferimento tecnologico e formazione nell’Istituto Romagnolo per lo Studio dei Tumori Dino Amadori (IRCCS) «gli Irccs sono sistemi dove la ricerca clinica vive a fianco del paziente. Cerchiamo soluzioni innovative da mettere a disposizione dei nostri pazienti». E rilancia: «Mi piacerebbe avere degli influencer della Ricerca e innovazione, trasferimento tecnologico».
Ottimista anche Carlo Nicora, vicepresidente Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (FIASO), direttore generale Istituto nazionale tumori Milano: «Gli italiani durante la pandemia hanno capito la ricerca clinica: avere i farmaci o i vaccini ha fatto la differenza. La ricerca clinica ha valore perché permette di offrire nuove speranze di vita. La ricerca clinica obbliga a un rigore metodologico che aumenta la qualità assistenziale, elemento impagabile per chi viene a farsi curare».