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Nell’infosfera serve un progetto umano per un capitalismo della cura

01 ottobre 2021

Nell’infosfera serve un progetto umano per un capitalismo della cura

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«La sfida non è l’innovazione tecnologica ma la governance del digitale». È una delle indicazioni che Luciano Floridi ha dato per comprendere gli «effetti dirompenti» della rivoluzione digitale. Con la premessa di «dare indicazioni dov’è la spiaggia e dove raccogliere i sassi», prendendo a prestito la metafora di Isaac Newton di fronte al sapere sterminato dell’universo. E l’invito al pubblico a «prendersela con me e non con la filosofia», se quello «che vi racconto non vi piace».

Il celebre docente di Oxford, dove insegna Filosofia ed Etica dell’informazione, con l’incontro dal titolo “Tempi digitali. Per la costruzione di un futuro responsabile” è l’ospite che giovedì 30 settembre ha aperto il ciclo di Conferenze “Un secolo di futuro: l’università tra le generazioni”, promosso dall’Università Cattolica nell’ambito delle celebrazioni per i cento anni della sua fondazione. «Nell’anno del Centenario è un grande piacere iniziare questo percorso, che ospiterà intellettuali di grande rilievo internazionale, come la lezione del professor Floridi. Un’iniziativa che risponde a una logica: avere da questi maestri un aiuto per capire il presente e il futuro che ci attende su questioni cruciali per l’umanità», ha detto il rettore Franco Anelli introducendo la lecture. «Tra i grandi temi c’è proprio quello della tecnologia che non può essere lasciato solo ai tecnici. Occorre interrogarsi sul senso e sullo scopo delle innovazioni tecnologiche in relazione ai bisogni degli esseri umani».

Già, la rivoluzione digitale. Per raccontarla Floridi ricorre a sei elementi: il nuovo habitat nel quale passiamo sempre più tempo, la cosiddetta “infosfera”; le nuove forme di capacità di azione; la nostra nuova identità; le sfide che tutto questo provoca; la governance; il progetto umano.

 

Luciano Floridi

Il nuovo habitat, dunque. Per capire meglio quello che sta succedendo intorno a noi secondo Floridi c’è un solo strumento, il «digitale» che, nelle sue varie forme, «taglia e incolla quello che noi abbiamo ereditato dai secoli precedenti». Ora, «questo “cut and paste” altro non è se non la capacità del digitale di scollare cose e “concetti sulle cose” ereditati dal passato e incollare cose che noi pensavamo fossero completamente distaccate ed ereditate come tali dal passato». In sintesi, il digitale taglia e incolla la modernità. Esempi concreti di questo scollamento? Presenza e localizzazione, territorialità e legge, con la conseguenza in quest’ultimo caso che la legge non si applica più all’interno dei confini di uno Stato o di un territorio ma sui “data subject”. Ciò indica che «siamo sempre più onlife», ossia viviamo esperienze in cui «offline e online sono mescolati», ha osservato Floridi. Ecco perché alla domanda: «Digitale o analogico?», l’unica risposta può essere solo «Ventunesimo secolo». Per spiegare meglio tutto questo Floridi ha utilizzato un paragone: «Il nostro mondo è una sorta di “società delle mangrovie”. Le mangrovie nascono dove le acque dolci del fiume s’incontrano con quelle salate del mare – si chiama acqua salmastra per una buona ragione –. Allora chiedere dove nascono le mangrovie, che è la nostra società, significa non avere capito dove siamo». Una fase in cui «siamo sempre più dipendenti dalle tecnologie».

Ecco dunque il «new habitat» in cui stiamo operando e nel quale ci sono «nuove forme di capacità di azione», come l’intelligenza artificiale. E anche se va di moda l’idea per cui l’intelligenza artificiale è un «matrimonio tra ingegneria e biologia», dal punto di vista del filosofo abbiamo di fronte «un divorzio tra la capacità di risolvere un problema con successo in vista di un fine e la necessità di essere intelligenti nel farlo». Il miracolo è che siamo riusciti a ingegnerizzare cose che risolvono problemi a intelligenza “zero”. Come siamo riusciti a farlo? Tramite costi abbattuti, una maggiore computazione, una quantità mostruosa di dati. Basti pensare che il 99% di tutti i dati mai prodotti dall’umanità li abbiamo prodotti noi contemporanei. Pertanto, «quello che abbiamo fatto è stato creare un mondo a misura delle macchine». Ma quanto costa questa automazione? Qualcuno pensa che possa portare alla fine del lavoro. Ma è un errore. Piuttosto è la «fine di alcuni business model», la «fine dell’identità tra impiego e lavoro», la «fine della propria identità con il mio lavoro». È in atto, quindi, una trasformazione rapida delle capacità lavorative senza dimenticare però che c’è una fetta di generazione di transizione che, pagandone le conseguenze, richiede un intervento sociale.

Il risultato? Un «ripensamento della nostra identità» che, sia in termini di privacy sia in termini di eccezionalità e di autonomia, è stata messa in crisi dalla rivoluzione digitale. «Ciò vuol dire che non siamo quegli agenti economici, informati, razionali di una certa tradizione novecentesca, ma siamo malleabili, fragili. A me piace pensare l’umanità come un “beautiful glitch”, un bell’errore di natura che non inficia il sistema».

Quale allora il nostro posto nel mondo? In questo «nuovo habitat» in cui la nostra identità è «fragile», «modificabile», la grande sfida è gestire la complessità. E in questo, ha suggerito Floridi, il «digitale ci può aiutare». Ma ci vuole anche una «governance», se non vogliamo perdere la nostra autonomia. Di qui la necessità di un «progetto umano» che sia adatto all’epoca che viviamo, quella dell’iperstoria e dell’infosfera. Attenzione però, ha avvertito Floridi, non abbiamo bisogno di un «metaprogetto», quello ereditato dalla seconda metà del Novecento che punta a garantire la «progettualità individuale». Bensì di un progetto umano fondato su tre c: coordinamento, collaborazione, cooperazione, in grado di scrivere la nostra storia. «Quello che serve è il “We the people”, l’incipit della costituzione americana» ovvero un «progetto umano che trasformi il capitalismo come l’abbiamo conosciuto in un capitalismo della cura».

Insomma, ancora una volta, è il «fattore umano a scrivere il futuro». È l’osservazione posta dalla giornalista e conduttrice Rai Monica Maggioni, alumna dell’Università Cattolica, che, al termine della lecture, ha approfondito alcuni passaggi dello speech del filosofo Floridi dialogando con lui. «Ci vuole ottimismo», ha detto il docente di Oxford. «L’elemento che fa la differenza è avere fiducia nella nostra capacità di stare insieme». In questo senso la politica – spesso ed erroneamente paragonata al gioco del calcio – può aiutare se intesa come coordinamento di varie forze. «La collaborazione fa sì che la società possa funzionare».

Tempi digitali

Un articolo di

Katia Biondi

Katia Biondi

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