L’interrogativo di fondo è se, al di là di ogni retorica, il sacrificio delle vittime dell’attentato di Capaci e di tanti altri abbiano consolidato, nel nostro Paese, la presa di distanza sociale, economica, professionale e culturale dalla disponibilità al compromesso con gli stili comportamentali mafiosi. Quelli per cui non solo si delinque sulla base di una propria forza operativa, ma si intimidiscono gli altri minacciandoli e assoggettandoli, si offrono privilegi a chi sta al gioco, si cerca di condizionare le istituzioni e si inquina il mercato, mandando in rovina o acquisendo imprese sane.
Falcone aveva colto, dietro la crudeltà dei delitti intimidativi visibili, lo strutturarsi anche in Italia di una criminalità fondata sulla organizzazione economica sistematica dei traffici illeciti, suscettibile di trasformarsi in un potere di fatto alternativo alla costruzione, pur faticosa, di relazioni sociali eque, qual è obiettivo della democrazia. Ed è per questo che le due linee guida del suo impegno professionale e propositivo furono, com’è ben noto, l’esigenza di una visione complessiva delle indagini, da non spezzettarsi in rapporto a singoli episodi delittuosi emergenti in contesti territoriali diversi, e l’esigenza del contrasto sul piano economico delle organizzazioni mafiose, intaccando il fulcro dell’interesse delinquenziale, vale a dire il profitto.
Un impegno volto a far emergere le responsabilità e a incidere sugli interessi non solo degli esecutori gregari, gli unici candidati per lungo tempo alla risposta sanzionatoria giudiziaria, ma anche dei beneficiari primari e sovente occulti delle attività criminose: del resto Pio La Torre, il primo propositore della legge relativa alla confisca dei profitti illeciti, era stato ucciso esattamente dieci anni prima della strage di Capaci.
Falcone, peraltro, era convinto che a monte di ogni impegno inteso al contrasto del crimine organizzato di matrice mafiosa fosse irrinunciabile l’unità e la trasparenza degli intenti. Per cui dobbiamo ancor oggi riflettere sulla solitudine, o anche solo sull’incomprensione, che dovettero sperimentare coloro i quali furono maggiormente consapevoli del potere acquisito da quel tipo di criminalità: quella solitudine che, talora, risultò fatale.
Ma nel contempo con il suo approccio Falcone finiva per togliere alle organizzazioni mafiose l’alone mitico di autorevolezza e di forza che le circondava, in quanto obbligava a considerarle, semplicemente, come espressione di criminalità. Il che va tenuto presente anche rispetto a certe rappresentazioni massmediatiche di tali organizzazioni, che, pur volendone descrivere le dinamiche, spesso finiscono per accreditarne un’immagine suggestiva e di forza. Ma anche rispetto a certe affermazioni semplificatorie, o rinunciatarie, secondo cui le mafie sarebbero onnipresenti e, nella sostanza, invincibili.
Quella di Falcone era una visione moderna dei mezzi con cui opporsi alla criminalità: non contro una o più singole persone (delle quali non va esclusa la possibilità di una revisione di vita), ma contro l’apparato dell’agire criminoso. Questo trova un riscontro - ricordando con Falcone le altre vittime di Capaci: la moglie Francesca Morvillo e gli agenti Rocco Dicilio, Antonio Montinaro e Vito Schifani - nelle ben note parole, al funerale, della moglie, Rosaria, dell’agente Schifani: perdono non volle certo dire ignorare, o genuflettersi alla crudeltà prepotente. Volle essere la rivendicazione radicale del non volersi porre sullo stesso piano dei criminali secondo la logica della ritorsione, quasi potesse trattarsi di una partita di giro tra l’agire della mafia e quello dello Stato. La rivendicazione di una alterità morale di fondo tra il suo essere persona - e donna - di fronte alla mafia, quale giovanissima moglie e madre, rispetto alla visione dei rapporti umani propri di quest’ultima. Fino a porre una sfida, direttamente alla coscienza degli assassini diretti, indiretti o conniventi. Solo l’odio non corrisposto può sconvolgere quella visione, e creare «il coraggio di cambiare»: ma, disse, «vi dovete mettere in ginocchio».