A questo proposito alcuni parlano anche di “russofobia” e di scontro di civiltà. Si tratta di fatti reali e sentimenti insuperabili?
«L’idea della guerra come prodotto di uno scontro di culture, addirittura di uno scontro metafisico in cui ne va dell’esistenza stessa della Russia e della sua tradizione cristiana, come ha detto il Patriarca di Mosca Kirill, è, in realtà, una fin troppo discutibile scusa per giustificare un’aggressione e una violazione del diritto internazionale altrimenti inammissibili. L’affermazione secondo cui sarebbe in gioco la difesa di una cultura tradizionale russa minacciata dalla “gay-Europa” e dai “fascisti ucraini” non è corroborata da nessun fatto: nel parlamento ucraino, su 450 deputati, uno solo è riconducibile a un partito di estrema destra. L’immagine di una Russia cristiana aggredita da un Occidente relativista e trasgressivo funziona solo se si fa finta di ignorare che la Russia è un paese non meno secolarizzato di quelli occidentali - utero in affitto compreso - con la sola differenza che cerca di far fronte a questa situazione riducendo il cristianesimo a una serie di norme che vanno difese con la violenza, secondo un modello che non mi pare propriamente evangelico e dove la Chiesa viene ridotta a un puro strumento dello Stato. Anche qui si tratta di un modello che non solo non è evangelico ma, come hanno ricordato diversi teologi ortodossi, rischia di ricadere in una forma di eresia, il filetismo – ovvero l’esaltazione esclusiva e orgogliosa della differenza delle razze e delle differenze nazionali – che in passato è già stata condannata dalla stessa Chiesa ortodossa. Certo, messo in questi termini, lo scontro rischia di essere insuperabile, ma non è lo scontro della Russia con l’Occidente: è piuttosto una Russia molto particolare che si scontra con sé stessa e odia le sue tradizioni più autentiche».
In queste condizioni è ancora possibile creare ponti? La cultura può essere uno strumento utile in questa direzione?
«Per certi versi, non solo è possibile creare ponti, ma dobbiamo cercare di farlo ad ogni costo, sapendo che proprio la cultura può essere uno strumento privilegiato in questo senso. Certo deve essere una cultura che non si lascia determinare dall’esigenza di definirsi sulla base dell’esistenza di un nemico, deve anzi essere una cultura che nell’altro e nella sua diversità vede una ricchezza, e nella sua capacità di aprirsi all’altro e di immedesimarsi con l’altro vede addirittura una delle sue caratteristiche fondamentali. È l’universalismo di cui, pur con tutto il suo nazionalismo, riusciva ancora a parlare Dostoevskij. Deve essere una cultura capace di vedere in ogni uomo un essere irriducibile a qualsiasi schema o ideologia: è l’immagine di un uomo che sa conservare la propria umanità anche nelle condizioni più terribili della vita nei campi di concentramento, secondo quello che ci hanno mostrato in pagine immortali i grandi della letteratura russa del XX secolo, da Solženicyn a Grossman. Ma qui, allora, più che di creare ponti o di cercare conciliazioni, si tratta semplicemente di riconoscere una realtà che nessuno può cancellare».