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Russia-Ucraina, un anno di guerra

23 febbraio 2023

Russia-Ucraina, un anno di guerra

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Sineddoche. È una figura retorica che prevede l’identificazione di una parte di un soggetto con la sua totalità. Dallo scorso 24 febbraio la sineddoche della guerra in Ucraina è la sovrapposizione tra Putin e il popolo russo: una associazione in cui spesso cade il discorso pubblico e talvolta la politica. Così lo scontro non si limita al campo di battaglia, accende gli animi delle persone e porta alla demonizzazione di tutto ciò che è russo. Alcuni la chiamano russofobia, altri scontro di civiltà. In ogni caso è l’anticamera della legittimazione del conflitto, terreno fertile della propaganda di Putin che già presenta l’Occidente come il nemico da annientare.

Tuttavia, proprio davanti a questo scenario, «non solo è possibile creare ponti, ma dobbiamo cercare di farlo ad ogni costo, sapendo che proprio la cultura può essere uno strumento privilegiato», spiega il professor Adriano Dell’Asta, docente di Letteratura russa dell’Università Cattolica, dal 2010 al 2014 presidente dell’Istituto Italiano di Cultura di Mosca.

A un anno dall’inizio della guerra spesso si mettono sullo stesso piano il governo di Putin e la popolazione russa. È un’associazione legittima?
«Assolutamente no. Esiste senz'altro uno zoccolo duro, maggioritario, che sostiene la politica del presidente Putin, ma non si può dimenticare che questo sostegno è determinato, per un verso, da una propaganda statale onnipervasiva e dalla chiusura di tutte le fonti di informazione indipendenti e, per una altro verso, dalla repressione e dalla paura con le quali il governo cerca di mettere a tacere le voci di dissenso che pure sono rimaste e che non sono per nulla insignificanti. Basti pensare in questo senso alle diverse migliaia di procedimenti amministrativi e penali cui sono sottoposti coloro che hanno cercato di esprimere pubblicamente la loro contrarietà alla guerra. Né va dimenticata quell’altra forma di protesta che è l’emigrazione di quanti non vogliono essere costretti a partecipare alla mobilitazione con la quale il governo cerca di colmare i vuoti prodotti sin qui nel suo esercito. Repressione, paura, emigrazione danno un quadro che è ben lontano da quello di un unanime sostegno alla politica di Putin, anzi testimoniano una situazione di profondo disagio in cui il primo nemico della Russia non appare più tanto quello che si è preso a chiamare l’”Occidente collettivo”, quanto piuttosto il governo russo attuale, che sta compromettendo l’immagine e il futuro del proprio paese e si sta coprendo di vergogna, come dicono esplicitamente molti russi».

Intervista video a cura di ANTONELLA OLIVARI


A questo proposito alcuni parlano anche di “russofobia” e di scontro di civiltà. Si tratta di fatti reali e sentimenti insuperabili?
«L’idea della guerra come prodotto di uno scontro di culture, addirittura di uno scontro metafisico in cui ne va dell’esistenza stessa della Russia e della sua tradizione cristiana, come ha detto il Patriarca di Mosca Kirill, è, in realtà, una fin troppo discutibile scusa per giustificare un’aggressione e una violazione del diritto internazionale altrimenti inammissibili. L’affermazione secondo cui sarebbe in gioco la difesa di una cultura tradizionale russa minacciata dalla “gay-Europa” e dai “fascisti ucraini” non è corroborata da nessun fatto: nel parlamento ucraino, su 450 deputati, uno solo è riconducibile a un partito di estrema destra. L’immagine di una Russia cristiana aggredita da un Occidente relativista e trasgressivo funziona solo se si fa finta di ignorare che la Russia è un paese non meno secolarizzato di quelli occidentali - utero in affitto compreso - con la sola differenza che cerca di far fronte a questa situazione riducendo il cristianesimo a una serie di norme che vanno difese con la violenza, secondo un modello che non mi pare propriamente evangelico e dove la Chiesa viene ridotta a un puro strumento dello Stato. Anche qui si tratta di un modello che non solo non è evangelico ma, come hanno ricordato diversi teologi ortodossi, rischia di ricadere in una forma di eresia, il filetismo – ovvero l’esaltazione esclusiva e orgogliosa della differenza delle razze e delle differenze nazionali – che in passato è già stata condannata dalla stessa Chiesa ortodossa. Certo, messo in questi termini, lo scontro rischia di essere insuperabile, ma non è lo scontro della Russia con l’Occidente: è piuttosto una Russia molto particolare che si scontra con sé stessa e odia le sue tradizioni più autentiche».

In queste condizioni è ancora possibile creare ponti? La cultura può essere uno strumento utile in questa direzione?
«Per certi versi, non solo è possibile creare ponti, ma dobbiamo cercare di farlo ad ogni costo, sapendo che proprio la cultura può essere uno strumento privilegiato in questo senso. Certo deve essere una cultura che non si lascia determinare dall’esigenza di definirsi sulla base dell’esistenza di un nemico, deve anzi essere una cultura che nell’altro e nella sua diversità vede una ricchezza, e nella sua capacità di aprirsi all’altro e di immedesimarsi con l’altro vede addirittura una delle sue caratteristiche fondamentali. È l’universalismo di cui, pur con tutto il suo nazionalismo, riusciva ancora a parlare Dostoevskij. Deve essere una cultura capace di vedere in ogni uomo un essere irriducibile a qualsiasi schema o ideologia: è l’immagine di un uomo che sa conservare la propria umanità anche nelle condizioni più terribili della vita nei campi di concentramento, secondo quello che ci hanno mostrato in pagine immortali i grandi della letteratura russa del XX secolo, da Solženicyn a Grossman. Ma qui, allora, più che di creare ponti o di cercare conciliazioni, si tratta semplicemente di riconoscere una realtà che nessuno può cancellare».

Un articolo di

Giorgio Colombo

Scuola di Giornalismo

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