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Sentieri di liberazione

26 maggio 2022

Sentieri di liberazione

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Ascoltare le riflessioni su scuola, guerra, amicizia e spiritualità di Emiliano Rinaldini, ripercorrendo quei sentieri della Valle Sabbia dove nel 1945 incontrò la morte per mano dei fascisti, fa sembrare questo giovane maestro cattolico un amico con cui condividere ancora oggi e, soprattutto oggi, i grandi interrogativi della vita. 

Emi aveva solo vent’anni quando venne fucilato alle spalle, ma era già una persona con un “dono speciale”, cresciuto a Brescia in un ambiente fecondo, quello dei padri della Pace e ispirato da buone letture e buoni maestri come padre Carlo Manziana e Vittorino Chizzolini. 

Aveva più o meno la stessa età degli gli studenti della Facoltà di Scienze della formazione che, lunedì 23 maggio, hanno accettato l’invito del preside Domenico Simeone e delle docenti Daria Gabusi, Monica AmadiniLivia Cadei (Facoltà di Psicologia), Paola Zini a trascorrere una giornata sui monti del maestro e partigiano Rinaldini.

Fu una scelta sofferta per il giovane Emi aderire alle Fiamme Verdi, una scelta antifascista intima e personale, che sfociò solo successivamente in una responsabilità collettiva. Scrive Daria Gabusi nell’introduzione a “Il sigillo del sangue”, il diario spirituale di un maestro partigiano, regalato agli studenti e a tratti letto durante la camminata. «La ribellione del giovane maestro prese così forma come “processo” e un “percorso”, come maturazione interiore di una coscienza profondamente religiosa, sensibile alle ingiustizie sociali, che decise di imbracciare le armi proprio nella prospettiva di far nascere, dalle macerie della guerra e dalle ceneri dei totalitarismi, una società più cristiana e più giusta».     

Egli sapeva bene che la sua scelta sarebbe ricaduta anche sui suoi famigliari - come ricorda anche Raffaele Maiolini, parroco delle Pertiche nonché docente di Teologia in Cattolica, seduto davanti all’eremo di Barbaine. Infatti, proprio lì accanto nel sacrario dedicato ai partigiani della brigata Perlasca, troviamo il nome del fratello Federico.


Si affaccia a salutare anche il custode dell’eremo, il monaco eremita don Luciano Donatini, che ha deciso di ritirarsi a meditare su queste montagne, come non mancava dei fare il giovane Emi nei giorni difficili della resistenza. Egli aveva un fucile, ma non ebbe mai modo di usarlo, e diversamente da altri partigiani era amato anche dalla popolazione locale. Il “ribelle per amore” era animato dalla misericordia, dalla giustizia, non odiava i nemici e pregava per loro.

«La guerra ci ha affinati – annotava sul diario che teneva nello zaino - la guerra ci ha posto dinnanzi, con la sua crudezza, dei problemi da risolvere, delle crisi da superare, degli uomini e delle costituzioni da commiserare ed aiutare con carità; ci ha, in una parola presentato il mondo e presentati al mondo».   

Rinaldini era un giovane “normale” con il desiderio di avere una fidanzata, una famiglia, non voleva una vita consacrata ma diventare un maestro, un educatore. Per lui la scuola è il progetto, l’opera delle opere, come spiega Livia Cadei, nei pressi della chiesa di San Bernardo, a pochi passi dal cippo che ricorda il luogo della sua fucilazione. «Apprezzo solo ora il valore della scuola  e del maestro per una ricostruzione sociale. Se ci fossero più maestri cristiani, coscienti della propria missione, oggi, pur nel dolore di vedere la patria infranta, avremmo in cuore almeno la speranza per il domani».

Rinaldini amava firmarsi nelle lettere inviate durante la clandestinità “ribelle per amore”, parafrasando il noto finale della Preghiera del ribelle di Teresio Olivelli, che docenti e studenti hanno letto insieme a Pertica alta, in località Belprato, attorno a quel cippo circondato da abeti, che ricorda il punto esatto dove fu colpito alla schiena mentre scappava.

E così anche il libro della sua meditazione, l’Imitazione di Cristo, divenne rosseggiante di sangue. 

Un articolo di

Antonella Olivari

Antonella Olivari

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