Sì, l’online fatigue esiste. Sintomi psicosomatici, assenza di tempo libero, scarsa qualità di vita ed estensione illimitata dell’orario lavorativo quotidiano sono le esperienze più frequentemente riportate dal personale universitario italiano in uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Psicologia e del Dipartimento di Scienze Statistiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – Serena Barello, Andrea Bonanomi, Federica Facchin, Daniela Villani – che ha fatto un bilancio dell’esperienza dei docenti universitari italiani dopo nove mesi di lavoro prevalentemente in remoto e dell’impatto di tale esperienza sulla loro vita personale.
Due intervistati su tre avvertono una profonda invasione delle tecnologie nelle proprie vite, con un utilizzo superiore alle sei ore al giorno per la maggioranza del campione, inclusi i weekend e i giorni di festa, o in orario extra-lavorativo. Inoltre, un intervistato su due dichiara di trascorrere in media più di quattro ore al giorno su piattaforme di comunicazione (come Zoom, Skype, Teams…).
Ciò che colpisce è la profonda sensazione di interferenza tra vita privata e vita lavorativa riportata dalla maggioranza degli intervistati (55%). La pandemia ha infatti richiesto una rapida e massiccia ridefinizione degli equilibri tra lavoro, famiglia e tempo libero. In altre parole, questo periodo di imposto lavoro a distanza sembra aver attenuato il confine tra il tempo del lavoro e il tempo della vita privata, rendendo difficile staccare la spina. La ricerca ha rivelato che, nell’ultimo mese, il 65% degli accademici si è dedicato al lavoro anche in orari o giornate non lavorative. Il 67% ha percepito che la propria vita personale è stata invasa in maniera eccessiva dalle tecnologie utilizzate per lavoro, e tale percentuale supera l’80% tra chi trascorre più di otto ore al giorno online, con conseguenze importanti sul proprio stile di vita e sul tempo sottratto alla cura di sé: ad esempio il 51% ha riferito di non aver mai svolto attività fisica nelle ultime quattro settimane (o al massimo una o due volte), il 53% ha alterato il proprio stile alimentare cercando consolazione nel cibo e nei comfort food, mentre solo il 36% ha regolarmente svolto attività per il benessere corpo-mente quali yoga, pilates o meditazione.
Tra i partecipanti alla ricerca, la online fatigue è associata a sintomi psicosomatici. Nello specifico, il 66% ha sperimentato frequenti tensioni muscolari, il 61% sbalzi d’umore e irritabilità improvvisa, il 55% difficoltà a prendere sonno, con percentuali largamente più elevate rispetto a quelli che meno hanno utilizzato tecnologie e piattaforme di comunicazione. Un partecipante su due, inoltre, lamenta disturbi alla vista o alla voce. Infine, il 62% riporta difficoltà di concentrazione, dato rilevante se si considera anche il frequente ricorso al multitasking, emerso nel 65% dei casi. Occorre sottolineare che tali disturbi psicosomatici non sono associati a problematiche preesistenti, dal momento che circa il 90% dei partecipanti dichiara di essere in buone condizioni di salute.
Inoltre, l’online fatigue non è correlata a genere, età e ruolo accademico, e non risulta associata ai livelli di coinvolgimento e dedizione verso il proprio lavoro, che sono molto elevati in tutto il campione. Infatti, nonostante la fatica che emerge dalla ricerca come conseguenza delle nuove modalità lavorative imposte dalla pandemia, la maggioranza dei partecipanti continua a sentirsi orgogliosa del proprio lavoro (84%) e a considerarlo ricco di significati e di obiettivi (73%), evidenziando quindi alti livelli di coinvolgimento, dedizione e resilienza.
Queste prime evidenze chiedono attenzione da parte delle istituzioni. La tenuta psicofisica della popolazione accademica italiana, ancora poco attenzionata da media e istituzioni, sembra essere stata messa a dura prova da questi mesi di lavoro in remoto. Gli effetti a lungo termine della online fatigue non sono ancora del tutto prevedibili. Tuttavia, la possibile cronicizzazione di questo affaticamento potrebbe avere molteplici derive (ad esempio burnout, decadimento dello stato di salute generale), con conseguenze negative anche sul rapporto con gli studenti che, soprattutto in questi tempi difficili, meritano attenzione e cura a sostegno della loro motivazione e gratificazione nello studio.
Secondo Andrea Bonanomi, responsabile della ricerca, «è necessario che le istituzioni si facciano carico di iniziative volte a promuovere una corretta igiene del lavoro, sensibilizzando in merito ai rischi connessi all’applicazione intensiva del remote working, sempre meno smart e sempre più home-working, e identificando le opportune misure di prevenzione e trattamento della online fatigue. Queste attuali modalità di lavoro, pur offrendo molte e diverse opportunità, necessitano non solo di regolamentazioni giuridico-istituzionali, ma anche di una responsabilizzazione del singolo rispetto all’adozione di stili lavorativi sostenibili e salutari». Ancora una volta, insomma, occorre affidarsi al detto “prevenire è meglio che curare”, al fine di poter sperare in un ritorno ad una rinnovata normalità.