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Smart working sì o no? Partiamo dai lavoratori

13 gennaio 2022

Smart working sì o no? Partiamo dai lavoratori

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Smart working sì o smart working no? Dobbiamo immaginare un futuro con una piena smaterializzazione del lavoro o è solo una pericolosa utopia che se per alcuni si dipinge come un lavoro da remoto a bordo piscina per altri è solo un ulteriore impoverimento insostenibile? E i sindacati che fine fanno? E le nostre case? Diventeranno uffici mobili senza pause?
Per mettere ordine è bene iniziare chiarendo una volta per tutte cosa intendiamo con la formula del “lavoro agile” o cosa vorremmo che significasse e quali misure necessita per non essere un improvvisato trasloco che rischia di trasformarci in alieni alienati. Lo spiegano i professori Luca Pesentidocente di Sociologia generale presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali e direttore scientifico dell'Executive Master Terzo settore e Impresa Socialee Giovanni Scansani, cooordinatore del Laboratorio "Progettazione dei Piani di Welfare Aziendale", nel libro appena pubblicato Smart Working Reloaded (ed. Vita e Pensiero), un approfondito lavoro di analisi che, come recita il sottotitolo, delinea Una nuova organizzazione del lavoro oltre le utopie. Li abbiamo incontrati per capire meglio alcuni punti del volume.

Avete curiosamente scelto un brano tratto dalla canzone Extraterrestre di Eugenio Finardi come  epigrafe al volume: qual è il messaggio che volete dare al lettore che si affaccia sulla soglia del vostro lavoro?
Mette in guardia da alcune ambiguità dello smart working che da positivo valore aggiunto al lavoro può trasformarsi in altro. Perché le persone in lavoro da "remoto forzato" che, a detta degli apostoli della remotizzazione, avrebbero vissuto benissimo in quella condizione, secondo noi, dopo un po’ di tempo, si sono invece accorti che la loro «sicurezza comincia(va) a dare segni di incertezza», come recitano i versi di Finardi, e che cominciava a «crescere dentro l’amarezza» perché si «sent(ivano) ancora vuoti» in quanto, tra l’altro, «niente è cambiato». Lavorare da remoto con le stesse dinamiche del lavoro svolto in ufficio (orari, controlli, assenza di obiettivi, routine) ha fatto comprendere che «le paure non se ne sono andate, anzi che semmai sono aumentate» e, stando a casa isolati e senza colleghi, «dalla solitudine amplificate». Allora abbiamo immaginato che questi milioni di lavoratori remotizzati dall’oggi al domani, in maniera improvvisa e sostanzialmente improvvisata (ad eccezione di poche realtà già “smart” da tempo), forse stavano in cuor loro sperando «di comunicare con qualcuno che (li potesse) far tornare». E che magari al loro manager remotizzato, come se si trovasse su un altro pianeta come un extraterrestre, volessero dire: «portami via, voglio tornare a casa mia…voglio tornare per ricominciare».

Anche il concetto di casa è mutato? 
Ovviamente la “casa” sopra citata, nel contesto dello smart working, diventa il proprio luogo di lavoro, ma deve intendersi anche in senso letterale, come la propria abitazione dove appunto «tornare per ricominciare» a viverla per quello che deve essere: il luogo degli affetti, della propria intimità, di quella benedetta separazione spazio-temporale dal lavoro nella quale ritrovarsi e che ci sembra essere il presupposto e la prima, basilare e basica misura di reale equilibrio tra vita e lavoro.  

Cominciamo allora con il delineare la differenza tra quello che avete definito “lavoro da remoto forzato” e lo smart working vero e proprio.
Il “lavoro forzato da remoto” è stato quello vissuto da milioni di persone soprattutto fino a luglio 2021. Forzato dalla normativa emergenziale, ma anche dalla pur giustificata prudenza delle imprese, preoccupate di non far scoppiare focolai e di garantire la prosecuzione delle attività in sicurezza. Lo smart working è invece uno dei risultati della trasformazione del mindset organizzativo d’impresa: richiede tempo e intelligenza della realtà, coinvolgimento paritetico del sindacato, possibilità di scelta libera, volontaria e consapevole da parte del lavoratore, esercizio di un ruolo e non più esecuzione di una mansione standardizzata basando l’attività su obiettivi condivisi e sulla verifica dei risultati.

Niente di più lontano da quanto accaduto durante la pandemia, insomma…
Con una battuta potremmo dire che non lo è la gran parte di quello che così è stato definito in questi quasi due anni. Non è smart il lavoro remotizzato per decreto, o per obbligo aziendale, senza che ci sia un accordo bilaterale tra azienda e lavoratore, senza un quadro contrattuale definito a livello aziendale. Insomma, non è smart ciò che è privo del requisito della volontarietà dal lato del lavoratore, e non conseguente a una trasformazione della cultura organizzativa dell’impresa. L’autentico smart working è un grande progetto di reingegnerizzazione dell’impresa.

L'intervista completa su Vita e Pensiero

Un articolo di

Velania La Mendola

Velania La Mendola

Vita e Pensiero

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