«L’obiettivo – ha ricordato il professor Giuseppe Riva, direttore dell’Humane Technology Lab di Ateneo aprendo i lavori del secondo evento - è quello di capire cosa abbiamo fatto e cosa possiamo fare in futuro insieme. È importante vedere le cose da una prospettiva diversa per formulare visioni condivise. Questa è la vera sfida». Un punto di vista condiviso dal professor Massimo Marassi, direttore del Dipartimento di Filosofia, che ricordando l’impegno dell’Ateneo su questi temi ha sottolineato l’importanza dello studio dell’incidenza della tecnica sulle varie espressioni dell’essere umano.
Ma cos’è l’intelligenza? Qual è la connessione che abbiamo con le macchine? Cos’è che ci manca per avere un robot in grado di essere un valido collaboratore? A queste domande ha provato a rispondere nel suo intervento Alessandra Sciutti, bio-ingegnera dell’IIT.
«Il problema – ha spiegato - è riflettere su cosa abbiamo definito per ‘intelligenza’ fino a poco tempo fa. Per anni abbiamo pensato che l’apice dell’intelligenza umana fosse risolvere problemi di logica. Ma quando abbiamo raggiunto questo obiettivo ci siamo accorti che non bastava perché queste macchine vivono in un mondo astratto. Allora abbiamo pensato che fosse sufficiente la ricerca di un corpo. Oggi abbiamo robot che fanno passi avanti, parkour, saltano all’indietro ma che però spesso non riescono a interagire in modo corretto. E non danno la mano ad Angela Merkel…»
«Il futuro – ha concluso – è riuscire a costruire la giusta architettura cognitiva. Non è un motivo di ricerca meramente ingegneristico perché la scelta di rendere un robot capace di essere autonomo o di prendere una decisione interroga vari campi. Così come la riflessione su un robot in grande di prendere consapevolezza di una propria identità, di un self artificiale. Dobbiamo puntare a robot più umani. Non devono sostituirci, non devono somigliarci ma essere in grado di comprendere cos’è un essere umano e le sue reazioni. Solo se si riesce a sviluppare un legame empatico tra uomo e robot quest’ultimo potrà essere un nostro reale aiutante».
Francesco Rea, esperto di Robotics Brain and Cognitive Sciences dell’IIT, ha invece presentato alcune ricerche in cui il robot, anche se non ha sembianze umanoidi se si comporta in modo “umano” e contribuisce a stimolare l’interazione arrivando da una parte a percepire e memorizzare la presenza dell’essere umano e comportarsi di conseguenza e dall’altra a essere protagonista di attività collaborative nell’ambito di creazioni artistiche. «L’umano deve essere presente nel loop: è lì la vera collaborazione».
Ha concluso i lavori la professoressa Antonella Marchetti, direttore del Dipartimento di Psicologia, che ha presentato alcune ricerche che hanno approfondito il legame tra robot e bambini analizzando cosa rende questi artefatti simili a noi e cosa può consentire l’entrata in campo dell’empatia. La risposta coinvolge due grandi categorie: l’aspetto fisico e il tipo di comportamento.
«Non è la dimensione fisica a rendere un robot intenzionale – ha concluso il professor Riva - una macchina ultra-realistica è più umana di un braccio che è in grado di interagire? Non necessariamente, anche perché spesso una “bambola”, quando viene percepita come tale scatena una reazione di rigetto. Inoltre, se la forma di un robot è eccessivamente umana il rischio è di generare troppe aspettative e anche un certo livello di disillusione se l’interazione è ritenuta insufficiente».
Tutti i temi della due giorni sono stati affrontati e analizzati in modo approfondito nell'e-book, consultabile gratuitamente, "Humane Robotics. A multidisciplinary approach towards the development of humane-centered technologies" a cura di Giuseppe Riva e Antonella Marchetti edito da Vita e Pensiero.