Quando Giorgio IV visitò Brighton, appena 21enne, si innamorò immediatamente della cittadina affacciata sulla Manica. Al punto da trasformare una semplice fattoria nel Royal Pavilion, il celebre palazzo ispirato all’architettura moghul disegnato da Nash. A distanza di due secoli, oggi la città può vantare un'altra icona, dalle linee altrettanto inconfondibili. È il Brighton & Hove Albion Football Club, la squadra di calcio dai colori che ricordano quelli del mare nelle belle giornate di sole, e delle sdraio affacciate sull'altro simbolo cittadino, il Brighton Pier.
Dopo la prima storica qualificazione a una competizione europea in ben 122 anni di storia, in questa stagione il club si è già qualificato alla fase a eliminazione diretta dell’Europa League. L’architetto, in questo caso, è italiano. Roberto De Zerbi aveva già dimostrato la qualità delle sue idee di gioco al Sassuolo e allo Shakhtar Donetsk, ma è riuscito a fare ancora meglio nel Regno Unito. Dove con lui, come vice allenatore, c’è Andrea Maldera.
Classe 1971, alumnus dell’Università Cattolica, Maldera è stato collaboratore tecnico del Milan e della Nazionale ucraina. «Al Milan mi legano tanti ricordi» racconta Maldera, tornato nelle aule della Cattolica per una lezione dedicata agli studenti del corso di Antonello Bolis, docente di Teoria, tecnica e didattica degli sport individuali e di squadra e membro di Cattolicaper lo Sport, insieme al tutor del corso Edgardo Zanoli. «Ricordo il primo allenamento, al termine del quale mi soffermai a parlare con Seedorf. Probabilmente lui stava misurando il nuovo staff, sentii il peso del giudizio. Poi arrivarono tanti momenti felici, e la gioia più grande fu la Supercoppa italiana vinta contro l’Inter a Pechino».
Anche in Ucraina, l’allenatore lombardo ha ritrovato tanto Milan. «Lavorare con Shevchenko e Tassotti, e farlo per una Nazionale, mi ha dato tantissimo. Mi ha arricchito molto a livello personale. Dell’Ucraina ricordo la vittoria contro il Portogallo a Kiev, davanti a 70mila persone. La gente, la gioia che c’era. Non era ancora scoppiato il conflitto che stiamo vivendo. Mi viene in mente la festa per aver raggiunto i quarti di finale agli Europei per la prima volta nella storia del Paese».
La partita, però, la vinse 4 a 0 la squadra di casa, l’Inghilterra di Southgate, che arrivò in finale e fu battuta a Wembley dall’Italia di Roberto Mancini e Luca Vialli. «Forse l’Inghilterra era nel mio destino» chiosa Maldera, che quattordici mesi dopo ritrovò il suolo inglese grazie alla chiamata di De Zerbi. «Il rispetto che le altre squadre, anche più blasonate, oggi hanno per il Brighton è il grande salto che Roberto ha fatto fare al club» racconta. Nei dintorni del Brighton Pier, in effetti, erano abituati a lottare per la salvezza, a galleggiare a metà classifica nelle stagioni migliori. L’anno scorso, per la prima volta nella storia del club, i Seagulls sono volati al sesto posto in Premier League. Con un gioco vincente e convincente. Inconfondibile, come la facciata del Royal Pavilion.
«E con un budget decisamente più basso di altri» continua Maldera. «Questo ha dopato di autostima e di convinzione l’ambiente. I giocatori si sentono più forti di quello che sono, in senso positivo. E le grandi squadre adesso ci rispettano come se fossimo un club importante. Recentemente abbiamo perso giocatori straordinari come Moisés Caicedo o Alexis Mac Allister. E abbiamo comprato giovani emergenti, Carlos Baleba, che giocava nel Lille, e Joao Pedro che era in Championship la stagione scorsa. Sono bravi giocatori, però è normale che con ragazzi meno pronti a questi livelli puoi avere qualche difficoltà in più. Eppure le idee sono le stesse, l’allenatore pure. L’identità è la stessa».
«Non è per niente banale che contro il Manchester United o il City si debba vincere», prosegue Maldera, sottolineando il verbo con l’enfasi della parola e l’intensità sguardo. «Quest’anno abbiamo vinto contro la prima e siamo rientrati nello spogliatoio davvero tristi per la sconfitta contro il City, dopo un buonissimo secondo tempo. Ci riempie di orgoglio sapere che i campioni d’Europa giochino contro di noi come si fa contro una delle top six, è uno dei risultati più importanti ottenuti da Roberto».
Per farlo, secondo Maldera i segreti sono due, il metodo e la passione. «Il metodo è la base attraverso la quale costruire un’identità di gioco. Tutti vogliono vincere, ma ci sono diversi modi per ottenere la vittoria. Questi modi necessitano un percorso didattico. Se non si allena quel modo, si segue l’occasionalità, si vive di scommesse e di incertezze. Con un metodo, invece, la squadra ha uno spartito ben chiaro tra le mani. A volte non è sufficiente per vincere, ma nel lungo periodo aiuta a ottenere risultati. Quindi il metodo identifica molto l’allenatore».
«Sembra un paradosso, ma con giocatori più affermati è più facile» continua Maldera. «Un grande giocatore ha una professionalità e una serietà mentale che gli hanno permesso di rimanere ad alti livelli. Se il metodo lo convince, può trarne anche un vantaggio personale. A Brighton abbiamo diversi esempi, Adam Lallana, Danny Welbeck, James Milner. Giocatori con carriere importanti, rimasti affascinati dal metodo di Roberto. Quando si ha a che fare con i giovani, al contrario, il rischio può essere che non diano così tanto valore al lavoro, possono trovarsi di colpo dentro situazioni più grandi di loro, affascinati dalle cose più superficiali. Perciò il lavoro sui giovani è difficile, quando la gioventù non è accompagnata da un grande senso di responsabilità».
Metodo, dunque, abnegazione; ma tutto ciò sarebbe impossibile senza passione. «La passione è sempre stata il mio motore. A volte, da giovani, si rischia di stopparla troppo presto. Nella vita bisogna fare delle rinunce, però l’obiettivo dev’essere provare ad alimentarle sempre, le nostre passioni. Nel dubbio ho sempre scelto di mettere al primo posto quello che sento mio, quello che mi piace fare».
Lo ha capito fin da giovane, Maldera, quando studiava ragioneria e sognava di lavorare nel mondo dello sport. «Così ho scelto di fare l’Isef all’Università Cattolica (divenuto dal 2001/2002 corso di laurea in Scienze motorie e dello sport, ndr). Ricordo tanti amici, e il professor Bonfanti, uno dei primi docenti a parlare di calcio all’Istituto superiore di educazione fisica. Facevamo lezione al centro accademico sportivo Rino Fenaroli. Ai tempi giocavo nella Pro Patria, e quel percorso universitario mi fece capire che lo sport poteva davvero diventare un lavoro. Mi ricordo la paura pazzesca nell’affrontare l’esame di Diritto, e la tesi proprio con Bonfanti sulla differenza di preparazione atletica tra i settori giovanili dilettantistici e professionistici. Ringrazio davvero il momento in cui ho scelto l’Isef, e l’Università Cattolica. È una scelta che rifarei ancora adesso».
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