Il discorso del Magnifico Rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Franco Anelli, in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico 2020-21.
Rivolgo un grato e deferente saluto al Signor Presidente della Repubblica, chiar.mo prof. Sergio Mattarella, che ci onora della sua partecipazione a questa cerimonia in collegamento dal Palazzo del Quirinale; e con lui saluto le Eccellenze Reverendissime, gli Illustri Presidi e la Gentile Prorettrice, presenti con me nell’aula Magna del nostro Ateneo, e tutti coloro, Autorità Accademiche, Civili, Militari e Religiose, colleghi docenti, personale tecnico amministrativo e studenti dei cinque campus dell’Ateneo, che assistono alla cerimonia attraverso i canali di comunicazione ai quali ci affidiamo per condividere questo storico momento della vita della nostra università.
1.
Oggi si inaugura il centesimo anno accademico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Le singolari circostanze, delle quali evidentemente non si può tacere, ci impongono una riflessione in cui convergono contingenza e prospettiva storica.
Siamo in un’aula deserta, costretti a proteggerci, ma non abbiamo ragione di sentirci soli, perché questi spazi sono colmi della partecipazione e dell’affetto di tutti coloro che ci seguono a distanza e del lascito intellettuale e morale di tutti coloro che hanno reso vivo questo luogo nel corso della storia dell’Ateneo.
Dai nostri predecessori, che hanno costruito, pietra su pietra, pensiero su pensiero, il grande edificio fisico e spirituale dell’Università Cattolica abbiamo tratto l’esempio, la forza d’animo e le conoscenze per affrontare il risvegliarsi di una paura antica, quella della pestilenza, che non è solo minaccia per la salute individuale, ma acido che corrode le strutture della comunità, perché rende l’incontro tra le persone un pericolo.
La nostra stessa famiglia universitaria è stata colpita: abbiamo perduto maestri, colleghi, amici, e tutti li ricordo commosso; ma proprio la capacità di pensarci comunque, pur nell’emergenza, come comunità ci ha sostenuto nel resistere e reagire. Non posso quindi fare a meno di iniziare questo discorso rivolgendo il pensiero a quanti si sono prodigati per assicurare la continuità dei percorsi di studio dei nostri ragazzi, dispiegando strumenti nuovi (le tecnologie di insegnamento a distanza) e virtù antiche: il sacrificio, l’intraprendenza, la capacità di adattamento. Grazie a tutti, docenti e personale, per quanto avete fatto. E grazie in particolare a voi medici, sanitari, personale del Policlinico Gemelli, per l’eccezionale prova di dedizione, competenza, capacità che avete dato di fronte a tutto il Paese. Sessant’anni fa padre Gemelli scriveva su Vita e Pensiero un articolo per spiegare perché i cattolici avvertivano il bisogno di una “loro” facoltà di medicina, ispirata ai valori della fede e della cura della persona; in questi mesi è stata riaffermata la chiara risposta a quell’interrogativo.
Su tutti, un pensiero affettuoso va a voi, cari studenti, che con responsabilità e determinazione avete proseguito nel vostro impegno di studio, ma vedete proiettata un’ombra di incertezza su una stagione che dovrebbe essere di promesse e speranze. Sentiamo fortemente nostro il compito di continuare ad alimentare i sogni cui la vostra gioventù ha diritto.
2.
Le università, del resto, esistono per questo, per dare un futuro ai giovani attraverso la conoscenza e così assicurare la continuità di una civiltà. E sono nate dalle crisi, per questo non dobbiamo temere della loro capacità di superarle.
Anzi si può dire che le università sono già nate nel mondo occidentale almeno due volte e sempre in contesti di passaggio: prima nel medioevo, come frutto dei grandi sistemi di sapere elaborati dalla filosofia scolastica, e poi all’inizio del XIX secolo, per opera della strutturazione humboldtiana che ha conferito agli atenei la forma che oggi conosciamo (e che è probabilmente alla soglia di un’ulteriore metamorfosi). In entrambi i casi le università hanno accompagnato la transizione tra modelli di pensiero, di vita, di società profondamente differenti. Di tali processi sono state frutto e insieme causa motrice, luoghi di elaborazione di novità che si raccordano e si nutrono del passato, per interpretarlo e per delineare la storia futura.
3.
Al nostro stesso Ateneo è toccato in sorte di nascere in un tempo difficile, nel 1921, alla vigilia di un rivolgimento politico del quale conosciamo gli esiti. Ma il momento non era casuale. Questa università è stata pensata come risposta, essa stessa, a un disagio: quello di un mondo cattolico che aspirava ad avere una propria rappresentazione istituzionale nel dibattito culturale e sociale. E soprattutto ad avere una voce originale, tanto originale da rendersi per certi aspetti antitetica all’approccio dominante, al mainstream diremmo oggi, fin da allora avviato verso una frammentazione settoriale delle discipline che esponeva l’accademia a un destino di incomunicabilità. Il progetto culturale concepito da Padre Gemelli si trova già enunciato nel suo articolo del 1914 sul Medievalismo, che, come osservava mons. Olgiati¹, va letto come “una parodia del metodo universitario, allora comunemente seguito, al quale contrapporre un ben diverso criterio metodologico, ossia la linea programmatica dell’università cattolica”, connotata dalla “organicità sistematica” e perciò capace di armonizzare le conoscenze specialistiche in una visione resa unitaria da un solido e ben definito ancoraggio assiologico.
«La scienza per la scienza, ordinata alla vita» era l’indicazione di metodo che l’Ateneo riceveva, nell’anno della fondazione, da Achille Ratti, non ancora salito al soglio pontificio. Una scienza che Gemelli programmaticamente voleva «ricercata senza alcuna preoccupazione, senza alcun pregiudizio, amata e servita come tale».
Ebbene, per attestare il valore di quel progetto voglio chiamare a testimone la voce di un osservatore burocraticamente distaccato, il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, che nell’approvare lo statuto della Cattolica e inserirla tra le università libere scriveva: “l’elevatezza dei criteri scientifici e didattici posti a base dell’ordinamento di codesta Università, la funzione, in parte internazionale che sembra esserle riserbata, accanto a quella di interesse nazionale, la bontà di parecchie sue innovazioni, portano ad accogliere senza esitare la domanda della sua costituzione”. Non saprei quali ulteriori finalità aggiungere, e come meglio descriverle, nel redigere il prossimo piano strategico dell’Ateneo. Si potrebbe definire modernità e lungimiranza. Si tratta in realtà della perpetuità dei valori del sapere, della cultura, della persona.
4.
A questo programma scientifico e didattico - “culturale” in una parola - l’Università Cattolica è stata fedele negli anni. Ha attraversato il ‘900 e tutti i suoi rivolgimenti, affrontato i momenti difficili e contribuito con passione a quelli di crescita. È risorta dalle macerie della guerra; ha partecipato alla costruzione della coscienza dell’Italia repubblicana, con un’importante presenza di propri laureati e docenti all’Assemblea costituente e poi in posizioni di responsabilità politica e istituzionale; ha vissuto il rinnovamento del Concilio Vaticano II e la trasformazione delle università conseguente alla contestazione giovanile; ha insomma accompagnato l’evoluzione della società italiana, sempre restando testimone dei propri valori, salda nel riferimento trascendente, vigile custode della propria indipendenza.
Nel cinquantesimo anniversario dell’Ateneo, Paolo VI ricordava che l’Università Cattolica è chiamata a realizzare la sua vocazione mantenendo intatte due esigenze che le sono connaturali: da un lato la serietà, il rigore didattico-scientifico, “venendo meno i quali essa tradirebbe ogni suo dovere verso la scienza, la società, la Chiesa; dall’altro lato l’impegno di porre la propria scienza al servizio del mondo”.
Come, allora, questo servizio è stato assolto nei cento anni trascorsi?
Nello spazio di questo intervento non si può ripercorrere in tutte le sue dimensioni una storia complessa. Occorre scegliere una chiave di lettura, e lo spunto per la scelta è offerto proprio dall’oggetto della cerimonia odierna: l’apertura dell’anno accademico. L’anno accademico è l’unità temporale che ordina l’attività didattica, che fissa la ciclicità dei corsi di lezione, mentre la ricerca fluisce con continuità, insensibile a convenzionali soglie temporali.
Ecco allora ciò che questa giornata simboleggia: un secolo di insegnamento, di formazione dei giovani. Cento anni accademici rappresentano cento classi di nuove matricole e cento classi di nuovi laureati.
5.
Il più grande dono che questo Ateneo può rivendicare di aver dato alla società italiana sono, più ancora della ricca produzione scientifica e della testimonianza culturale, le persone che qui sono state educate. I nostri oltre 300 mila laureati e diplomati dalla fondazione. Sono loro i testimoni che portano nella società, nel lavoro, nelle loro famiglie i fondamenti intellettuali e morali che hanno appreso negli anni di studio. Il valore sociale di un’università si misura dalla qualità delle persone che ha educato. E sono tanti gli Alumni dai quali questo Ateneo è onorato di farsi rappresentare nella società.
Questa non è una relazione ricca di numeri, ma ne voglio ora menzionare un altro: 68. Tanti sono i giovani che nel primo anno di attività dell’Ateneo si iscrissero ai corsi di laurea in Filosofia e Scienze sociali. Essi sono, è giusto ricordarlo in questa occasione, da annoverare tra i fondatori dell’Ateneo, non meno di padre Gemelli, Armida Barelli, Ludovico Necchi, mons. Francesco Olgiati, Ernesto Lombardo e dell’originario ispiratore Giuseppe Toniolo. Senza quei ragazzi, senza la coraggiosa fiducia che li ha spinti a “scommettere” il loro futuro su un ateneo nascente, nulla sarebbe stato possibile. Ed è, in verità, un gesto fondativo che si rinnova ogni anno, quando nuove matricole decidono di affidare a questa università una parte importante delle loro aspettative per il futuro. I nostri 45.000 studenti attuali rigenerano costantemente, con la loro scelta e la loro presenza, la radice stessa questo Ateneo.
6.
Oggi dunque stiamo celebrando la simbolica stipulazione, per la centesima volta, del patto educativo tra l’università e i propri studenti.
«Educazione è per eccellenza conquista della unità dello spirito, è formazione della personalità». Così si esprimeva Padre Gemelli nel discorso di apertura dell’A.A. 1925/26 ed è formula ancora non solo attuale, ma necessaria e bisognosa di essere apertamente riproposta. In essa si esprime una più profonda e più completa concezione dell’idea di capitale umano rispetto a quella corrente, che troppo spesso regredisce a un’accezione aziendalistica, intese come accumulo di capacità dispiegabili nei processi economici, riducendo le capacità e l’intelligenza della persona a fattore della produzione.
Si avverte pressante il bisogno di una rivalutazione della funzione sociale, direi anzi politica, della conoscenza in una società che sembra invece disconoscerla sempre più radicalmente, in qualche caso addirittura programmaticamente. Il rimedio al degrado non può essere una “formazione” orientata a consegnare competenze tecniche, ma un’azione profondamente educativa, capace di diffondere cultura e di renderla legante delle relazioni sociali, non leva di discriminazione.
Sensibile all’urgenza del problema, Papa Francesco ha promosso un patto educativo mondiale, il Global Compact on Education, che non allude semplicemente al pur basilare bisogno di alfabetizzazione o qualificazione professionale, bensì invoca la maturazione di una coscienza collettiva che sappia costruire un nuovo umanesimo e un nuovo approccio alla conoscenza scientifica (una nuova episteme, secondo le parole del Santo Padre), quali premesse di un ripensamento dei rapporti sociali ed economici e di una relazione non predatoria con il Creato. L’educazione, in una visione che si dipana con coerenza dalla Laudato Si’ alla Fratelli Tutti, diviene così la via che può condurre a un’effettiva e stabile risposta alle ingiustizie sociali e alla connessa emergenza ambientale.
Nel riflettere sull’«educazione della persona», sul suo rapporto con lo sviluppo sociale e con l’agire politico, possiamo riscoprire una traccia antica. Nel Convivio, interrogandosi sull’essenza della «nobiltà», Dante fondava il “rango” e la dignità sociale non nei natali o nel censo, bensì nel prestigio acquisito con la virtù. La qualità individuale diventa per questo tramite un principio dinamico, che supera il concetto di dignitas come attributo ereditario delle aristocrazie e la trasforma in una funzione della humanitas, che giace in potenza in ognuno e si tramuta in atto attraverso il perfezionamento intellettuale, l’elevazione spirituale, la rettitudine della condotta.
Offrire opportunità educative – e offrirle a tutti, come questo Ateneo ha sempre fatto sforzandosi di sostenere gli studenti non abbienti – significa attuare l’articolo 3 della Costituzione integralmente, in entrambi i suoi commi; ossia assicurare «pari dignità sociale» (risuona qui la dignitas prima menzionata) non solo in termini di statica razionalità di trattamento normativo, ma anche favorendo le condizioni per la partecipazione di ciascuno alla vita sociale e per l’assolvimento del dovere, affermato dall’articolo successivo, di contribuire al «progresso materiale o spirituale della società». Nella sintesi di questi principi ritroviamo un progetto di homo civicus in cui si sviluppa il seme della «nobiltà» dantesca.
Questa è la «persona» che l’istituzione universitaria ha la responsabilità di «educare», ponendosi come luogo in cui il diritto del singolo di perseguire una propria crescita intellettuale e morale si esercita nel suo dovere di contribuire, attraverso i saperi acquisiti, al bene comune.
7.
Se le università sono scuole di cittadinanza, in quanto scuole di cultura, occorre anche dire che quella cittadinanza non è esclusivamente nazionale, ma europea. Questo Ateneo ha manifestato una tensione internazionale fin dal suo sorgere, promuovendo, nel 1924, la costituzione della Federazione Internazionale delle Università Cattoliche. Ma l’identità europea non ha a che fare con i trattati, con la diplomazia o con decisioni maggioritarie di istituzioni politiche: è invece un dato, una realtà intellettuale e morale che, semplicemente, non si può negare, soltanto riconoscere. Ogni nazione europea è intrinsecamente europea perché lo è culturalmente. Non avremmo il codice civile che abbiamo se non fossero esistiti i giuristi romani (e bizantini, a ben vedere), gli illuministi francesi, i dogmatici tedeschi. La nostra letteratura, la filosofia, le arti, la musica, il teatro non sono forse neppure pensabili come strettamente nazionali, perché sono nati dalle contaminazioni, dalla circolazione delle idee, dal cosmopolitismo degli studiosi e degli artisti. A questo fenomeno plurisecolare le università hanno dato un contributo decisivo quanto evidente. Ora hanno anche il compito di riaffermarlo, di farlo comprendere: conoscere la nostra cultura significa riconoscerne la dimensione essenzialmente continentale. E significa anche coglierne la contestualizzazione storica.
8.
La vita dell’Università Cattolica coincide in buona parte con il Novecento. Ma la civiltà del novecento sembra davvero giunta al termine. Ciò che si pensava avvenuto nel 1989 appare invece essersi verificato per effetto di una sequenza di eventi occorsi negli ultimi due decenni: l’attentato al World Trade Center, il crollo di Lehman Brothers che ha innescato la grande crisi dei mercati e dei debiti sovrani, e infine, il nostro convitato di pietra, la pandemia. Fenomeni che hanno minato le sicurezze che la fine della guerra fredda aveva alimentato, almeno nei paesi sviluppati: la sicurezza geopolitica, la sicurezza finanziaria, la sicurezza sanitaria.
Credevamo di esserci messi al sicuro dalle guerre, che la globalizzazione dell’economia ci avrebbe dischiuso un’epoca di prosperità, che i progressi della scienza medica ci avrebbero protetto dalle malattie. Ci sbagliavamo; e si riaffaccia il grande dubbio formulato da Marc Bloch nella sua Apologia della storia²: «Ogni volta che le nostre tristi società, in perenne crisi di sviluppo, prendono a dubitare di se stesse, paiono domandarsi se abbiano avuto ragione di interrogare il loro passato, oppure se l’abbiano interrogato bene».
C’è poi un’altra e più radicale, almeno sul piano culturale, cesura. L’università attuale, ancora tributaria del modello humboldtiano, come dicevo all’inizio, è una struttura tipicamente novecentesca, perché nei suoi processi formativi si rispecchia la civiltà occidentale del ventesimo secolo: una società fondata sull’industria, sulla meccanica e sulla chimica, sull’impiego esteso di forza lavoro nella produzione massiccia di beni fisici di consumo.
Ora però sulla scena ha fatto irruzione la tecnologia digitale, che si evolve e produce cambiamenti nella società con una velocità che nessuna altra tecnologia in passato aveva manifestato e che rende arduo adeguarsi ai mutamenti. La rivoluzione dell’informazione volta realmente pagina rispetto al mondo della passata rivoluzione industriale e, oltre a offrirci grandi opportunità (come quella di comunicare, come stiamo facendo adesso, anche quando l’incontro personale è impossibile), pone questioni inedite, che toccano il profondo.
L’informazione ri-ontologizza la realtà, determinando scenari che si inseriscono difficilmente nelle categorie codificate da più di due millenni di riflessione filosofica e metafisica.
L’imporsi dell’intelligenza artificiale ha già avviato un ripensamento dei nostri concetti di autonomia, libertà e scelta. Della stessa idea di soggetto.
9.
Alla svolta del primo secolo di vita, l’Università Cattolica, come tutte le istituzioni di ricerca e di formazione, è chiamata a concorrere a elaborare un pensiero nuovo, che postula non l’abbandono, ma una ridefinizione delle categorie del passato e dunque anzitutto una loro piena e profonda comprensione.
È il problema del “bene interrogare” la storia posto da Bloch: tanti fenomeni, che ho prima elencato, ci hanno sorpreso, perché non si è potuto o voluto coglierne i segni anticipatori.
Il prossimo secolo ci attende dunque con compiti non meno ardui di quelli del passato, perché c’è sempre una crisi da superare; perché l’impegno nella ricerca è una necessità sempre più pressante; perché l’insegnamento non è ripetizione, ma costante sforzo di adeguare l’attività formativa alle esigenze che mutano. E proprio su quest’ultimo aspetto, sull’esperienza di apprendimento dello studente, siamo attesi a elaborare le più profonde innovazioni. Gli studenti, che non appena è loro consentito tornano a popolare i chiostri, ci assegnano tacitamente ma chiaramente un compito: fare in modo che l’università, pur impadronitasi delle tecnologie, rimanga anche in futuro un luogo, nel quale le persone si incontrano e crescono insieme. A loro, e ai ragazzi che oggi stanno vivendo la scuola tra le pareti domestiche e che presto varcheranno le porte delle università, dobbiamo risposte.
Onorare il nostro passato non si esaurisce nel celebrarlo o nel rispettare le tradizioni: ci viene richiesto – e lo faremo – di dimostrare la stessa misura di audacia, passione e originalità di pensiero che sono stati necessari per concepire l’idea stessa di questa Università e poi per realizzarla.
Rivolgo allora, in conclusione, un riconoscente e ammirato pensiero a tutti i maestri, ai docenti, al personale, ai rettori e ai presidi che hanno portato l’Ateneo dei Cattolici italiani a diventare una grande realtà al servizio del Paese e della Chiesa, che non ci ha mai fatto mancare il suo sguardo benevolente e la sua guida.
Questo primo secolo non è storia passata: è una “fabbrica” perennemente operosa, come un’antica cattedrale, che consegniamo a tutti coloro che scriveranno le prossime pagine della vita dell’Ateneo. A noi che siamo giunti fino a questo punto resteranno l’emozione, la meraviglia e l’orgoglio di avere concorso a costruire i primi cento anni: ci possono sembrare tanti nella scala del tempo degli uomini, ma a ricordarci la vastità dell’orizzonte del Tutto sono le parole del Salmo:
«mille anni, ai tuoi occhi,
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte».
[1] Francesco Olgiati, L’Università Cattolica del Sacro Cuore, vol. I, Vita e Pensiero, 1955, p. 466.
[2] Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, prefazione a cura di Jacques Le Goff, traduzione di Giuseppe Gouthier, Einaudi, Torino 2009.