«Ci sono brand come WaxMax, Mafric e Endelea – racconta – che nascono dall’incontro tra un designer occidentale con tessuti e stampe africane, e altri in cui sono i creativi stessi a essere africani o afro discendenti, contribuendo con un pezzo importante della loro cultura».
Origini comuni per background differenti. Tra i casi da lei incontrati Adama Kone, il fondatore di Farafina Couture, un rifugiato ivoriano che una volta arrivato in Italia decide di far fruttare le sue competenze sartoriali, Aramatou Compaore di Ara Couture, un’africana cresciuta in Italia, e ancora Giselle Nazama che a 21 anni si trasferisce dal Camerun in Italia per approfondire gli studi. Quest’ultima è tra i nomi del progetto The Fab Five Bridge Builders, curato da Stella Jean, Edward Buchanan, Michelle Francine Ngonmo e Camera nazionale della moda italiana per dare visibilità e supporto a cinque talenti POC in occasione della Milano Fashion Week.
«Nel nostro Paese c’è chi fa moda italiana occidentale e etnica tradizionale al 100% - prosegue Carini – ma il mix è ciò che ci interessa perché lì intravediamo una possibilità di ibridazione che non è solo ibridazione del prodotto ma è anche un cambiamento nell’identità della persona e nella società».
«Il mix solitamente avviene utilizzando tessuti etnici ben geolocalizzati con dei modelli occidentali. Sia gli italiani che gli afro discendenti - aggiunge - si trovano curiosamente d’accordo nel dire che il gusto occidentale è pronto alla stampa e al colore, ma non ai dettagli stilistici che sono propri della moda africana, come balze o sbuffi».
Ma in quali forme la moda e più in generale le produzioni culturali possono rappresentare e assumere i contorni di esperienze di co-sviluppo? In che modo si può fare cooperazione con la moda?
Alle domande arrivate in diretta dai social la professoressa Mora ha risposto che «i mondi della cooperazione guardano con preoccupazione e pregiudizi - spesso fondati - a quello della moda che è molto legato al mercato. Che diritto abbiamo di utilizzare i tessuti africani nelle nostre collezioni? Si sollevano questioni importanti che hanno a che fare con l’appropriazione culturale riconducibile a forme di ‘colonialismo tipicamente occidentali’».
Per Carini «la possibilità di dare lavoro rappresenta un modo per tenere forte il legame con i paesi di provenienza delle materie prime utilizzate dai brand». È il caso di Endelea, che ha sede in Italia ma un team di sarti in Tanzania e investe ogni anno una percentuale di ricavi nel paese africano attraverso la collaborazione con la Facoltà di Fashion Design dell’università di Dar es Salaam con possibilità di stage per molti studenti. O il caso di Cheikh, ragazzo senegalese che dopo essersi ammalato di poliomielite impara il mestiere di sarto nel Centre Handicapé di Dakar. Dopo essersi trasferito in Italia fonda il brand KeChic e contemporaneamente un’associazione attraverso la quale collaborare con l’istituto di Dakar, affidando a molti giovani ricoverati una parte della produzione manifatturiera.
Attenzione dunque alla filiera etica, dignità del lavoro e valorizzazione dei percorsi: «Dalle esperienze di co-sviluppo con i paesi lontani possiamo imparare qualche cosa di utile a un co-sviluppo anche locale - conclude Mora – qui sì che diventiamo protagonisti insieme della costruzione di modelli di business dove il ‘co’ rappresenta l’assunzione di responsabilità verso la collettività».