NEWS | alumni global talks

Comunicare cura: quando la medicina incontra la narrazione

08 aprile 2021

Comunicare cura: quando la medicina incontra la narrazione

Condividi su:

A volte basta una diagnosi scritta in modo incomprensibile o il ricorso indiscriminato al dottor Google per erigere una barriera. Nel rapporto medico-paziente una buona comunicazione invece è decisiva per il successo della terapia stessa: ascoltare e fare domande sono gli ingredienti essenziali nella relazione di cura. «Sono malata di sclerosi multipla e vivo nel costante timore di non poter più muovere le gambe da un giorno all’altro. Questo genera una paura che spesso non trova corrispondenza nella lingua medica: solo dopo due anni una dottoressa ha usato il termine “lesioni al cervello” per farmi capire cos’erano quei puntini bianchi che si vedevano nelle risonanze magnetiche. Prima tutti dicevano solo “placche attive”, c’è una bella differenza». Francesca Mannocchi è una nota giornalista che ha all’attivo diverse collaborazioni tra cui l’Espresso o Propaganda Live su La 7, autrice di esclusivi reportage da Egitto, Iraq, Libia e ha raccontato la sua esperienza di malata cronica nel quinto appuntamento di “Alumni Global Talks”, il ciclo di incontri organizzato dall’Associazione Alumni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per inquadrare la nuova normalità post pandemia.

Il webinar, moderato dalla giornalista di Repubblica Annalisa Cuzzocrea, si è incentrato sul punto di incontro tra medicina e narrazione. «Questa esigenza va analizzata bene – spiega Roberto Persiani, professore di Chirurgia Generale dell’Università Cattolica e chirurgo oncologo del Policlinico Gemelli - perché oggi ci si affida alla sensibilità del singolo mentre le discipline di comunicazione andrebbero inserite nel percorso di studi di un medico. Oggi creare un rapporto empatico e di fiducia con il paziente è diventato più complicato perché spesso le persone provano ad arrivare preparate in studio alla visita medica affidandosi con troppe e spesso fuorvianti aspettative al dottor Google. Perciò prima dobbiamo eliminare convinzioni sbagliate e poi iniziare a costruire un ponte, che non può che essere fatto di parole, ma anche di gesti, sguardi, attenzioni. Occorre essere veri, dire quanto basta per far capire al paziente la sua condizione e dirlo chiaramente. La malattia di Francesca Mannocchi non ha allo stato delle conoscenze mediche una cura definitiva che porti alla guarigione, ma ciò non vuol dire che non ci si possa prendere cura di lei, anzi».

Comunicare bene per prendersi cura di un malato. Un aspetto che Marco D’Angelo, specializzando della Scuola di Medicina Interna presso la Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica, ha imparato molto bene: «Un giorno ero di guardia in un reparto Covid del Policlinico Gemelli e mi hanno informato che avremmo ricoverato una ragazza sorda. Mi sono preoccupato molto perché ho temuto di non riuscire a comunicare bene con lei, in aggiunta protetti da tute, mascherine e caschi per la respirazione tutto si complica nella relazione medico-paziente. Così ho cercato un sito che mi aiutasse a imparare della lingua dei segni le parole e le espressioni più semplici: “Ciao”, “Stai bene?” o “Hai dolore?”. Quando la giovane paziente è arrivata in reparto era in uno stato critico, molto confusa a causa del Covid. Poi ha visto che mi rivolgevo a lei con gesti familiari e si è illuminata, mi ha sorriso e risposto. Da lì sono cadute tutte le barriere. Io questo l’ho imparato con l’esperienza sul campo. A mio parere nelle facoltà mediche dovrebbe darsi ancora maggiore spazio a una formazione alla relazione di cura. Non basta formare bravi “tecnici” perché il medico deve saper innanzitutto rapportarsi a una persona in difficoltà che cerca aiuto».

Un aiuto può venire dalla medicina narrativa, una metodologia d’intervento clinico-assistenziale che utilizza la narrazione come strumento per comprendere e integrare i punti di vista di quanti hanno parte nella malattia e nel processo di cura: «Si tratta della co-costruzione della propria storia di cura – racconta Cristina Cenci, antropologa e fondatrice del Center for Digital Health Humanities-. Il mondo della malattia prima era chiuso mentre ora in esso intervengono tante narrazioni. La comunicazione diventa centrale e non può basarsi sulle sensibilità del singolo medico. Il primo passo fondamentale è l’ascolto. Poi serve diventare esperti dei bisogni del paziente, il piano assistenziale va integrato con quello esistenziale. Costruire la migliore storia di cura, soprattutto in casi di malati cronici, significa decidere anche le migliori opzioni di cura coerentemente con il progetto esistenziale della persona».

Ma la realtà del Servizio Sanitario Nazionale è spesso diversa. I medici che seguono i percorsi di cura ruotano frequentemente e il tempo da dedicare a ogni singolo paziente può diventare un punto critico: «La loro fretta non dipende da loro - dice Mannocchi, che ha raccontato la sua esperienza di malata cronica nel libro “Bianco è il colore del danno”, pubblicato da Einaudi quest’anno-; questo deve insegnarci la pazienza e il rispetto per il nostro sistema sanitario, che è lo sforzo di tutti per tutti. E che non dobbiamo dare per scontato. Nella mia esperienza ho avuto la fortuna di incontrare medici straordinari, che mi hanno insegnato a chiedere. È fondamentale che il paziente si senta libero di domandare quando non capisce, spesso questo dipende anche da quanta “tracotanza del sapere” dimostra il medico. Il punto focale invece è imparare ad accogliere quella domanda di senso che il malato ha su di sé. Un paziente cronico ogni tanto molla la presa, non ci crede più. A me è capitato questo: dopo sei mesi che non scrivevo alla neurologa ho ricevuto un suo messaggio un sabato pomeriggio, in cui mi chiedeva come stavo. È lì che l’umanità si fa strada oltre il sapere medico».

Persiani concorda: «Spesso la malattia viene vissuta come una ingiustizia dal paziente. Magari ci si “affanna” a seguire una alimentazione corretta per tutta la vita e poi ci si ammala lo stesso di tumore. Il “perché a me” che ogni malato si chiede può non avere risposte, perché non sempre la medicina può spiegare tutto. Noi possiamo ascoltare e dare ai pazienti una prospettiva di vita nuova e vissuta bene anche nella malattia. Per esempio, su una malattia cronica è fondamentale aiutare a trovare un senso nel resistere e continuare ad accettare cure per un male che a volte si fa fatica a percepire. Questo rapporto chiede a un medico di essere autentico e sincero».

Un articolo di

Michele Nardi

Michele Nardi

Condividi su:

Newsletter

Scegli che cosa ti interessa
e resta aggiornato

Iscriviti