A volte basta una diagnosi scritta in modo incomprensibile o il ricorso indiscriminato al dottor Google per erigere una barriera. Nel rapporto medico-paziente una buona comunicazione invece è decisiva per il successo della terapia stessa: ascoltare e fare domande sono gli ingredienti essenziali nella relazione di cura. «Sono malata di sclerosi multipla e vivo nel costante timore di non poter più muovere le gambe da un giorno all’altro. Questo genera una paura che spesso non trova corrispondenza nella lingua medica: solo dopo due anni una dottoressa ha usato il termine “lesioni al cervello” per farmi capire cos’erano quei puntini bianchi che si vedevano nelle risonanze magnetiche. Prima tutti dicevano solo “placche attive”, c’è una bella differenza». Francesca Mannocchi è una nota giornalista che ha all’attivo diverse collaborazioni tra cui l’Espresso o Propaganda Live su La 7, autrice di esclusivi reportage da Egitto, Iraq, Libia e ha raccontato la sua esperienza di malata cronica nel quinto appuntamento di “Alumni Global Talks”, il ciclo di incontri organizzato dall’Associazione Alumni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per inquadrare la nuova normalità post pandemia.
Il webinar, moderato dalla giornalista di Repubblica Annalisa Cuzzocrea, si è incentrato sul punto di incontro tra medicina e narrazione. «Questa esigenza va analizzata bene – spiega Roberto Persiani, professore di Chirurgia Generale dell’Università Cattolica e chirurgo oncologo del Policlinico Gemelli - perché oggi ci si affida alla sensibilità del singolo mentre le discipline di comunicazione andrebbero inserite nel percorso di studi di un medico. Oggi creare un rapporto empatico e di fiducia con il paziente è diventato più complicato perché spesso le persone provano ad arrivare preparate in studio alla visita medica affidandosi con troppe e spesso fuorvianti aspettative al dottor Google. Perciò prima dobbiamo eliminare convinzioni sbagliate e poi iniziare a costruire un ponte, che non può che essere fatto di parole, ma anche di gesti, sguardi, attenzioni. Occorre essere veri, dire quanto basta per far capire al paziente la sua condizione e dirlo chiaramente. La malattia di Francesca Mannocchi non ha allo stato delle conoscenze mediche una cura definitiva che porti alla guarigione, ma ciò non vuol dire che non ci si possa prendere cura di lei, anzi».
Comunicare bene per prendersi cura di un malato. Un aspetto che Marco D’Angelo, specializzando della Scuola di Medicina Interna presso la Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica, ha imparato molto bene: «Un giorno ero di guardia in un reparto Covid del Policlinico Gemelli e mi hanno informato che avremmo ricoverato una ragazza sorda. Mi sono preoccupato molto perché ho temuto di non riuscire a comunicare bene con lei, in aggiunta protetti da tute, mascherine e caschi per la respirazione tutto si complica nella relazione medico-paziente. Così ho cercato un sito che mi aiutasse a imparare della lingua dei segni le parole e le espressioni più semplici: “Ciao”, “Stai bene?” o “Hai dolore?”. Quando la giovane paziente è arrivata in reparto era in uno stato critico, molto confusa a causa del Covid. Poi ha visto che mi rivolgevo a lei con gesti familiari e si è illuminata, mi ha sorriso e risposto. Da lì sono cadute tutte le barriere. Io questo l’ho imparato con l’esperienza sul campo. A mio parere nelle facoltà mediche dovrebbe darsi ancora maggiore spazio a una formazione alla relazione di cura. Non basta formare bravi “tecnici” perché il medico deve saper innanzitutto rapportarsi a una persona in difficoltà che cerca aiuto».