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Dies Academicus: il discorso del rettore Franco Anelli
Il discorso del rettore Franco Anelli tenuto in occasione dell'apertura dell'Anno Accademico 22-23 del campus di Roma dell'Università Cattolica del Sacro Cuore
| Franco Anelli
16 febbraio 2023
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Con grande piacere mi associo, come Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, all’Inaugurazione dell’Anno Accademico presso la Sede di Roma dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Per la comunità accademica questo è un momento molto significativo. Ricordo che quando ero professore e vicerettore all’Università Cattolica di Lisbona, e vivevo dall’interno il ciclo annuale di vita di una università, con i suoi rituali tipici, mi sorprendevo spesso a pensare a come una università configuri il tempo in un modo molto peculiare.
Per esempio, in una università gli anni non si sommano come si fa in altre istituzioni, né il tempo che passa fa invecchiare una università. Certamente la sua età viene misurata a partire dalla data di fondazione, e questo arco temporale costituisce un prezioso patrimonio di esperienza. Ma, in verità, una università sta sempre cominciando di nuovo. Anche le università cariche di secoli sono chiamate a essere giovani. Perché una università è chiamata a rinascere, ogni anno, in ogni matricola che si iscrive, in ogni corso o progetto che prende le mosse, nei sogni che si rinnovano.
La forza di una università, e tanto più di una università cattolica, non sta soprattutto nelle risposte di ieri, ma nella domanda sulla verità che possiamo formulare insieme oggi. La forza di una università, e tanto più di una università cattolica, sta nell’impegno che essa profonde nell’inaugurare una visione dell’essere umano e della vita – visione necessariamente transdisciplinare – che rappresenti una ragione di speranza. In uno dei suoi incontri con il mondo accademico, Papa Francesco consegnava questa esortazione: «Quanto sarebbe bello che le aule delle università fossero cantieri di speranza, officine dove si lavora a un futuro migliore, dove si impara a essere responsabili di sé e del mondo!» (Incontro con gli studenti e il mondo accademico, Bologna, 1° ottobre 2017). Noi inauguriamo l’anno accademico con la celebrazione dell’eucaristia, poiché Gesù è il Maestro delle nostre vite. È Lui che è capace di trasformare i membri di una comunità accademica come la nostra in «artigiani di speranza».
Il Vangelo di oggi mostra bene quanto Gesù sia il Maestro dello sguardo e come egli agisca, nei nostri confronti, come un sapiente pedagogo. Nella sua brevità, infatti, il testo del racconto di San Marco (Mc 8,22-26) ci fornisce molte e buone indicazioni sul modo di costruire o ricostruire la capacità di vedere. Soffermiamoci su alcuni dettagli. «Giunsero a Betsaida, dove gli condussero un cieco pregandolo di toccarlo». Sono altre persone, probabilmente familiari o conoscenti, ad andare da Gesù a implorare compassione per quell’uomo. La restituzione della vista o la maturazione di una visione non sono conquiste esclusivamente individuali. Possiamo essere soli con la nostra cecità esistenziale, non siamo soli con la nuova vista da costruire. L’esperienza della conoscenza ci giunge attraverso gli altri, nei grandi e piccoli processi di sviluppo. La scienza trae beneficio dal lavoro in rete e dalle pratiche comunitarie. Abbiamo sempre bisogno degli altri. Una università è il trionfo del noi. È l’opposto della solitudine. Anche nel testo evangelico abbiamo bisogno di qualcuno che ci porti fino a Cristo, perché egli si riveli in noi manifestando la sua misericordia.
È interessante che nessuno sappia con certezza che cosa farà Gesù: una certa imprevedibilità è nell’aria. Nessuno di loro si azzarda a dire: «Farà così o farà cosà». La cosa fondamentale è l’incontro, più che la forma che questo assume. Una università ha tante procedure preordinate, ma necessita anche di preservare uno spazio per l’imprevedibile, per quello che ancora non sappiamo e che nascerà dall’incontro. «Allora, preso il cieco per mano, lo condusse fuori del villaggio». Questa immagine è una delle più straordinarie che il Vangelo ci offra, poiché traduce plasticamente la fiducia riposta in Gesù. La verità è che, se Egli non ci tendesse la mano e non ci permettesse un incontro profondo, noi non potremmo seguirlo. Usciamo dal villaggio perché la sua mano afferra la nostra. Ma che cosa significa uscire dal villaggio? Significa che la trasformazione avviene soltanto quando accettiamo di lasciare il nostro punto di vista abituale per spostarci verso un luogo nuovo, che non è tanto un luogo quanto piuttosto una relazione, una disponibilità alla ricerca, un’apertura di mente e di cuore. Non di rado, per guardare alla vita nella sua ampiezza dobbiamo arrischiare altri punti di vista.
Noi viviamo talmente a ridosso degli avvenimenti, così catturati dalla loro intensità, che non riusciamo a vederli davvero. Per questo è importante dislocarci, cambiare punto di osservazione e frapporre una distanza, ritrovando così quelle condizioni che a un certo punto ci mancano per vedere quello che non avevamo notato. «E, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani». Quando sono da soli, Gesù mette della saliva sugli occhi del cieco. È un elemento simbolicamente forte, poiché la saliva è una linfa, una secrezione che viene da Gesù stesso. Egli non prepara una medicina esteriore, non propone come farmaco una pianta o le viscere di un pesce. La medicina è Gesù stesso. Ciò che ci trasforma è il dono che Gesù fa di sé. Per questo il gesto della saliva è accompagnato da un altro gesto, quello dell’imposizione delle mani, che rappresenta anche una trasmissione vitale. Non stupisce che, nei loro tanti commenti a questo passo evangelico, i Padri della Chiesa abbiano rilevato nella saliva e nelle mani l’espressione del sacramento della cura.
Sicuramente la formazione e la ricerca universitaria sono supportate da un metodo e da una tecnologia scientifica. Ma dobbiamo essere chiari: questo non basta. A dispetto delle previsioni che si formulano oggi, secondo cui le università del futuro saranno sostituite da manufatti dell’intelligenza artificiale, da chip e robot, noi sappiamo che non potrà essere soltanto questo. Quale che sia la forma in cui la trasmissione della conoscenza verrà a organizzarsi in futuro, essa continuerà a essere una scienza essenzialmente umana, che non si fa senza il dono di sé, senza una dedizione di amore. Una università vive della qualità delle relazioni. È un laboratorio, certamente, ma di doni, di incontri, di umanità plurali. Per questo è così importante prenderci cura dell’umanità, gli uni degli altri. «E gli chiese: “Vedi qualcosa?”» È una bella immagine, questa, di un Gesù che interroga. Sappiamo che le risposte sono utili, sì, e ne abbiamo sempre bisogno – ma non potremo essere all’altezza di ciò che la vita ci chiede se non oseremo trasformare le risposte stesse in domande ancora più grandi. L’università deve offrire un’occasione di incontro con le domande fondamentali: «Chi sono io? Da dove vengo? Dove sto andando? A chi appartengo? Da chi o perché posso essere salvato?». L’orizzonte delle scienze non deve troppo rapidamente organizzarsi sul versante della risposta – e delle piccole risposte – dimenticando l’arte delle grandi domande. Platone mise in bocca a Socrate, nell’Apologia, che il bene più grande concesso all’uomo è la possibilità che questi ha di interrogarsi su sé stesso, e che la peggiore disgrazia è esserne privati. E fu un altro autore dell’antichità classica, Menandro, a coniare una massima che suona così: «Che cosa bella è l'uomo quando è uomo veramente!». Si tratta del dovere di più lungo corso, cui non si assolve senza il confronto con le grandi domande. «Quegli, alzando gli occhi, disse: “Vedo gli uomini, poiché vedo come degli alberi che camminano”». Nella risposta del cieco di Betsaida non c’è alcun lamento, nessuna accusa, ma il coraggio dell’oggettività: «Io vedo questo». Gesù allora può correggere il suo sguardo, e lui comincia a vedere nitidamente.
In una università, le visioni non sono prefabbricate come fossero ricette. La scienza è una scuola di umiltà che ci aiuta a integrare l’errore stesso e l’incompiutezza come tappe di un processo più ampio. Il percorso universitario deve essere paziente. L’autenticità di quest’uomo, che ammette «non ci vedo bene», «vedo gli uomini come alberi», crea l’opportunità di essere curato e di arrivare a vedere con chiarezza. Nel campo spirituale, per esempio, abbiamo bisogno di imparare ad accettare la vita nei suoi limiti, senza occultare, senza nascondere niente sotto il tappeto, esponendo la nostra povertà, nella fiducia che Egli ci può trasformare. «Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente e fu sanato e vedeva a distanza ogni cosa». Non conosco più bella finalità della vita accademica di questa: aiutare a vedere chiaramente, creare competenze per vedere a distanza ogni cosa. È a questa sapienza che noi siamo chiamati. Una università come l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha la responsabilità di essere una grande potenziatrice di visioni nuove.
Che in quest’anno che oggi si inaugura possa compiersi questo progetto. Quando l’uomo è guarito, Gesù gli dice: «Ora torna a casa, senza entrare nel villaggio». È curioso, perché l’uomo era uscito dal villaggio e adesso Gesù gli dice: «Vai a casa, non tornare al villaggio». C’è un orizzonte nuovo, una nuova vita che comincia. Non dobbiamo ritornare al punto di partenza, nello stesso posto, no! Anzi, torna a casa, rientra nella tua vita, rientra pienamente nella tua storia, abita la tua verità come se fosse una soglia. E questo vale anche per noi. Che Maria, la sede della Sapienza, ci aiuti ad accogliere questa lezione di Gesù.
L'omelia di
Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione