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Dies Academicus: il discorso del rettore Franco Anelli

16 febbraio 2023

Dies Academicus: il discorso del rettore Franco Anelli

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Eminenze ed Eccellenze Reverendissime,

Signori Ministri,

Autorità civili, religiose militari,

Magnifici Rettori,

Chiarissimi Prorettori, Presidi e Delegati Rettorali,

Illustri componenti del Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo, dell’Istituto Toniolo di Studi Superiori e della Fondazione Policlinico Gemelli IRCSS,

Stimati Direttore generale dell’Ateneo e Direttore Generale della Fondazione Policlinico Gemelli,

Chiarissimi Professori (e cari colleghi), stimato personale tecnico amministrativo e sanitario,

Carissime Studentesse, Carissimi Studenti e Specializzandi; tra questi ultimi in particolare desidero rivolgere da subito un saluto e una manifestazione di sostegno, affetto e vicinanza ai nostri studenti che provengono dai Paesi colpiti dal terremoto. Non possiamo fare nulla contro la crudeltà della natura, ma faremo quanto è in nostro potere  per alleviare le loro sofferenze e continuare a farli sentire qui a casa loro mentre le loro case sono state così severamente colpite.

Gentili Signore e Signori,

Benvenuti al Dies Academicus della sede di Roma dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per l’anno accademico 2022/2023.

Con piacere saluto il Ministro della Salute, professor Orazio Schillaci, che ringrazio per aver accettato il nostro invito e per le parole che vorrà rivolgerci tra poco. Rivolgo un deferente saluto altresì al Ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi e al Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e con loro alle autorità regionali e comunali.

Un segno di particolare cordialità e amicizia al Preside della Facoltà di Medicina e chirurgia Antonio Gasbarrini, chiamato dalla Facoltà a svolgere questo importante ruolo, succedendo alla lunga e importante presidenza del professor Rocco Bellantone, che ha guidato la Facoltà in un periodo delicato e complesso, eppure di ragguardevole crescita. Con loro saluto il Preside della Facoltà di Economia, professoressa Antonella Occhino, tutto il corpo docente, i ricercatori e il personale di questa sede dell’Ateneo dei cattolici italiani.

Un ringraziamento, per l’importante sostegno che mi assicurano nell’assolvimento del mio mandato, al Pro-rettore vicario, professor Pier Sandro Cocconcelli, ai Pro-rettori confermati nella carica (professori Fausto Colombo, Giovanni Marseguerra e Roberto Zoboli) e alla professoressa Raffaella Iafrate, nominata Pro-rettrice a partire da quest’anno accademico.

Un saluto grato e affettuoso alla professoressa Antonella Sciarrone Alibrandi, che mi ha affiancato come Pro-rettore vicario per oltre dieci anni ed è stata ora chiamata al prestigioso compito di sottosegretario del nuovo Dicastero per la Cultura e l’Educazione, il cui prefetto, il Cardinale José Tolentino de Mendonça ha presieduto la celebrazione eucaristica che ha aperto la giornata e che è stata concelebrata da Sua Eccellenza Monsignor Claudio Giuliodori, Assistente Ecclesiastico Generale dell’Ateneo.

Insieme a loro ringrazio le alte autorità ecclesiastiche che hanno voluto unirsi a noi in occasione di questo Dies Academicus, la loro presenza è il segno di una costante guida e incoraggiamento della Chiesa, che illumina il nostro cammino.

Un particolare benvenuto ai colleghi Rettori delle università di Roma e del Lazio.

1. È un onore accogliervi qui oggi. Ed è motivo di profonda soddisfazione percepire tanta benevola attenzione verso la realtà della nostra sede romana; una comunità di docenti, personale e studenti, che oggi si raccoglie per condividere una cerimonia simbolo della continuità, ogni anno rinnovata, del lavoro educativo, di ricerca e di cura che qui viene con passione condotto da oltre 60 anni. Quel costante rinnovarsi finemente descritto dal Cardinale José Tolentino de Mendonça nell’omelia pronunciata durante la celebrazione eucaristica.

Il legame con le istituzioni, così autorevolmente rappresentate, e con l’intera città di Roma, ha uno speciale significato e valore proprio per la natura delle attività di questa sede, nata dall’audace determinazione che spinse Padre Gemelli a perseguire il progetto di creare qui una scuola medica, nel senso più completo: un luogo di formazione, studio, ricerca e cura; una pluralità di dimensioni e ispirazioni indissolubili, ciascuna delle quali alimenta, sostiene e indirizza le altre.

Questo particolare connubio ci consente di offrire alla città di Roma e a larga parte del Paese un’offerta sanitaria ampia, di grande qualità, che mette realmente al centro il paziente e i suoi bisogni.

La Facoltà medica, lo dirà più accuratamente e con maggiore cognizione di causa il Preside, nel corso dei decenni ha educato generazioni di medici e di operatori sanitari e ha raggiunto una posizione di straordinario prestigio nazionale e internazionale.

Non mi soffermo sugli indicatori quantitativi dei prodotti della ricerca e sui lusinghieri risultati delle graduatorie internazionali, che vedono la Facoltà e il Policlinico in posizioni di vertice; ci sono elementi non collocabili in una scala di misura, ma eloquenti ed evocativi, dei quali preferisco parlare.

Mi riferisco, da un lato, allo straordinario valore degli studiosi che qui sono stati formati negli anni del corso universitario, e poi avviati alla ricerca scientifica: la capacità di generare talenti è uno dei più alti compiti dell’Accademia e i successi dei nostri allievi ci rendono tutti orgogliosi; dall’altro lato, alludo alla reputazione di una faculty, nel senso anglosassone di “corpo docente”, capace di attrarre scienziati e clinici tra i più prestigiosi a livello nazionale e internazionale: ultima in ordine di tempo, e sono lieto di rivolgerle un caloroso benvenuto, la professoressa Evis Sala, proveniente dall’Università di Cambridge e recentemente insignita di un importante riconoscimento scientifico internazionale; a lei, nel rispetto di un’antica tradizione accademica, è stata affidata l’odierna prolusione.


2. La Facoltà di Medicina, dicevo, non è pensabile senza il Policlinico, così come la scienza medica non è pensabile dissociata dall’attività di cura.

Esprimo perciò un sincero, profondo apprezzamento per tutti coloro che operano nel Policlinico Universitario Agostino Gemelli: al Direttore Generale, prof. Marco Elefanti, al Presidente, avv. Carlo Fratta Pasini, e ai componenti del Consiglio di amministrazione della Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS, al Direttore scientifico, prof. Giovanni Scambia, al management e al personale di ogni livello, tutti uniti con professionalità e tenace dedizione nel condurre la difficile impresa di gestire un ospedale che come pochi altri coniuga qualità, dimensione e completezza del servizio con una costante attenzione alla persona.

Una peculiarità difficilmente ripetibile e, soprattutto, identitaria.

3. Parlare di “policlinico universitario” non significa apporre un’etichetta, ma esprimere l’essenza di un progetto culturale e ideale la cui missione è quella di mettere scienza e assistenza sanitaria a disposizione di tutti, offrendo un servizio autenticamente pubblico, che purtroppo non di rado viene frainteso in ragione di una riduttiva e formalistica rappresentazione del Gemelli come “erogatore privato” di prestazioni sanitarie; una descrizione che tradisce la nostra identità e il nostro concreto operare e ci accomuna indebitamente a soggetti che si muovono in una logica profit, pienamente legittima, ma che non ci appartiene. Noi siamo un’istituzione di servizio: al servizio della scienza e delle persone.

Il tempo è maturo, e spero anche propizio, per una riflessione più profonda e strutturale sulle caratteristiche di un policlinico universitario come questo.

L’apertura dell’anno accademico è un momento che guarda al futuro e in sé esprime, ma anche esige, un’attitudine di fiducia e determinazione di fronte alle difficoltà del presente e alle inevitabili preoccupazioni per il domani.

Non voglio trattenermi, in questa occasione, sulla severità dell’impegno di assicurare l’attività di un ospedale al servizio del pubblico, aperto a tutti, che non seleziona i casi a seconda della loro convenienza economica e che, anzi, consapevolmente si fa spesso carico di prestazioni non remunerative pur di rispondere ai bisogni dei pazienti.

Ma una realtà come la nostra, capace di 100.000 ricoveri l’anno e di un milione di prestazioni ambulatoriali; di professare la scienza e offrire cure avanzate; di attirare scienziati e clinici di valore da tutta l’Italia e da tutto il mondo, che mettono le loro capacità a disposizione di questo territorio, non può essere data per scontata, o affidata soltanto alle capacità del management, alla dedizione del personale e al rilevante sostegno economico che l’Ateneo tuttora assicura.

Ha bisogno delle condizioni indispensabili per veder garantita nel tempo la propria sopravvivenza, che per noi non significa remunerare il capitale, bensì poter fare investimenti nelle strutture, nelle apparecchiature, nella ricerca e nell’assistenza. A pieno titolo, dunque, il Policlinico Gemelli sollecita una considerazione organica delle sue specificità e delle modalità del suo contributo al servizio sanitario pubblico.

Siamo grati, sinceramente, per l’attenzione che il Policlinico ha in tante occasioni, anche di recente, ricevuto dalle istituzioni; aggiungo, ora, che una definizione nitida e di lungo periodo, all’interno di un quadro normativo di riferimento stabile, del ruolo che si vuole assegnare a questa importante realtà all’interno del sistema sanitario ci permetterebbe di pianificare con serenità le modalità per assolvere la nostra missione in una prospettiva di lungo periodo.

L’auspicio che ho ritenuto di esprimere non è mosso dall’ansia di una qualche rivendicazione. Vuole essere un invito a riconoscere la natura di un policlinico universitario non statale come luogo in cui la ricerca scientifica e la cura del malato tendono a una sintesi virtuosa e mai sorretta da intenti speculativi.

4. Ho insistito sul fatto che questa è un’istituzione vocata alla ricerca, e alla peculiarità della ricerca in campo medico vorrei dedicare qualche rapida riflessione, soffermandomi in particolare sul senso che l’esercizio della scienza deve avere.

Non di rado il discorso sulla ricerca scientifica degrada, soprattutto negli ultimi tempi, in una questione di misurazione, condotta alla stregua di due ricorrenti parametri: la bibliometria e la capacità di attrarre risorse. Un bravo ricercatore è colui che sa raccogliere fondi e li usa per produrre lavori ad alto impatto bibliografico, che poi lo agevoleranno nell’accesso ad ulteriori fondi. Wissenschaft als Beruf - la scienza come professione è il titolo di una celebre conferenza di Max Weber del 1919 - ma oggi sempre più spesso Beruf, sembra voler dire soltanto “mestiere”.

In realtà, la ricerca è un’impresa più alta e nobile, che non può sottrarsi a un interrogativo sul senso dell’agire dello scienziato.

Fare ricerca in una materia delicata come la medicina non si esaurisce nel porsi il pur importante traguardo di elaborare nuovi protocolli e tecniche terapeutiche da applicare nella pratica clinica. L’indagine scientifica è tensione verso l’espansione della conoscenza e dunque non se ne può parlare senza riflettere su cosa intimamente sia questa esplorazione, su quali opzioni di senso e scelte anche etiche (e talora economiche) siano ad essa sottese.

Questa domanda si pone con forza proprio in un’università, che, tengo a ribadirlo, ha un’identità e una vocazione diversa da quella di un centro di eccellenza nella ricerca clinica o di un ospedale specializzato.

Perché ci sono loro, gli studenti. La loro attesa non solo di conoscenze, competenze e abilità pratiche, ma anche di significato è una domanda talora implicita, inespressa nella quotidianità del lavoro, ma costante.

Spesso chiediamo agli studenti, perché hanno scelto di studiare una certa disciplina; non ci chiediamo perché gliela insegniamo e ancora meno ci chiediamo perché facciamo ricerca, a che serve? con quali obiettivi ultimi?                       

La speranza di aprire tutte le porte, di svelare tutti gli interrogativi è illusoria.

La realtà dell’università è una macchina pensata per generare domande; per educare persone capaci di formulare sempre nuovi interrogativi e non appagarsi delle risposte; per essere continuamente attratti, sedotti dalla volontà di comprendere.

5. «Non so come apparirò al mondo. - ha scritto Isaac Newton descrivendo la sua condizione di scienziato - Mi sembra soltanto di essere stato un bambino che gioca sulla spiaggia, e di essermi divertito a trovare ogni tanto un sasso o una conchiglia più bella del solito, mentre l’oceano della verità giaceva insondato davanti a me».

Nella contemplazione dell’ignoto, nella curiosità che induce a varcarne la soglia sta il brivido della ricerca, il suo fascino, la sua bellezza. Un altro grande fisico, Paul Dirac, commentando una delle sue celebri equazioni disse che «Una teoria che include la bellezza matematica ha più probabilità di essere giusta e corretta rispetto ad una teoria sgradevole, pur confermata dai dati sperimentali».


6. Ma la bellezza, diceva Sant’Agostino, è mutevole. E anche la conoscenza. Chi fa ricerca deve essere sempre pronto, in ogni momento, a rivedere le certezze consolidate, a ricostruire dalle fondamenta l’edificio del sapere.

È evidente, quasi scontato, il carattere cumulativo della conoscenza scientifica, che in un ideale processo diacronico, che attraversa i secoli, viene stratificata, custodita, tramandata e arricchita ad ogni passo.

È stato detto che la crescita quantitativa della conoscenza somiglia all’affascinante processo di costruzione della Sagrada Familia di Gaudì: man mano che la costruzione prosegue, aggiungendo un nuovo elemento architettonico, il disegno appare sempre più stupefacente.

Per certi versi, d’altronde, innalzati sul piedistallo di un patrimonio di conoscenze cresciute esponenzialmente negli anni recenti, ci sentiamo piuttosto lontani dall’insondabile oceano di Newton.

Cerchiamo di capire il mondo per trasformarlo e non si può negare che per molto tempo, dalla stagione del positivismo in poi, abbiamo confidato in questa linearità del progresso del sapere. La fisica, la chimica, la biologia, le scienze della natura in generale, ci consegnavano informazioni sempre nuove e utili, perché la loro applicazione tecnica offriva nuovi strumenti, per migliorare la vita quotidiana, produrre beni, diffondere il benessere.

La domesticazione dell’ignoto segnava costanti successi, apparentemente inarrestabili e, appunto, lineari, progressivi, incrementali. Il problema etico, il problema della scelta, regrediva al livello dell’uso delle conoscenze, o meglio delle tecnologie.

Tuttavia, mentre si diffondeva un fiducioso ottimismo nell’incedere del sapere, chi rifletteva sui fondamenti teorici del processo scientifico non mancava di ricordare che la conoscenza nuova non lascia inalterato il passato; non è, per quanto possa superficialmente dare questa impressione, puro accumulo: in qualsiasi momento una nuova scoperta può irrompere e sconvolgere il quadro, ridefinire le conoscenze di ieri e attribuire loro un nuovo senso e un nuovo ordine, e a volte addirittura le confuta.

L’ignoto, dunque, si può aprire anche alle nostre spalle, quando ci accorgiamo di dover ripensare ciò che appariva acquisito.

7. Un tale fenomeno sta accadendo, sotto i nostri occhi, con lo sviluppo della scienza dei dati e l’intelligenza artificiale.

Una suggestione stimolante, ma anche inquietante, è stata data da un noto articolo di Chris Anderson su Wired del 2008, dal titolo La fine della teoria: il diluvio dei dati rende il metodo scientifico obsoleto.

La sua posizione è perentoria circa la «fine della teoria» causata dalla nuova scienza dei dati, da non pochi ritenuta un autentico cambio di paradigma che si riverbera anche sulle scienze umane: «È finita per ogni teoria del comportamento umano, dalla linguistica alla sociologia. Dimenticate la tassonomia, l’ontologia e la psicologia. Chi lo sa perché le persone fanno quel che fanno? Il punto è che lo fanno, e noi possiamo misurarlo con una fedeltà senza precedenti. Se si dispone di abbastanza dati, i numeri parlano da soli».

Insomma torna davanti a noi una nuova manifestazione del caos, di una realtà il cui ordine ci sfugge, associata a una sorta di rinuncia a ricostruire l’ordine infranto. La radicalità del mutamento è tale, si è detto, che «anche la ricerca educativa sarà chiamata a decidere quale strada imboccare».

La rivoluzione dei dati sembra proiettare verso un abbandono della ricerca di senso, di ordine, di teoria appunto.

E si associa all’altro radicale problema, quello della dimensione della delega che si sta conferendo agli algoritmi, i quali elaborano la massa infinita dei dati imperscrutabili all’uomo, nei processi analitici e in quelli decisionali.

L’entità delle questioni spaventa, indubbiamente, perché ci riporta davanti all’oceano di Newton, che stavolta appare meno un oceano di verità, ma di ignoto. Tuttavia non possiamo attribuire al progresso scientifico e tecnologico un carattere disincarnato, perché è alle necessità umane che esso, comunque, va riportato.

8. La questione, in medicina, si pone con particolare urgenza. Non vi è dubbio che molta riflessione antropologica, di etica fondamentale e applicata si sia concentrata in questi decenni sulla questione di una temuta disumanizzazione della medicina, sull’importanza della relazione umana nell’atto terapeutico, che è appunto un prendersi cura dell’altro.

Una relazione che impallidisce di fronte alla crescente delega, come prima accennavo, di molte attività, e perfino decisioni, a processi in vario modo “meccanizzati”.

Proprio l’ansia di umanità sospinge le ricerche mediche che sottolineano l’importanza di un approccio integrato, dove lo stato di salute di un paziente è una risultante che emerge dall’interazione di innumerevoli fattori sottostanti.

Al di là dei mutamenti epistemologici della scienza medica –– o delle scienze mediche, sempre più specialistiche e frammentate –– mi sembra che siano due i parametri che troviamo sempre come riferimento strutturale alla sua applicazione quotidiana. All’inizio, per così dire, della ricerca c’è l’uomo. Motivato dall’innata e naturale sete di conoscenza, affascinato dalla bellezza dei meccanismi che va progressivamente scoprendo e che continuamente ci rivelano aspetti inediti di un organismo, quello umano, che ad ogni passo appare sempre più sorprendente.

L’altra costante, si trova –– sempre metaforicamente –– alla fine del percorso, ed è ciò che dà senso e significato ai nostri sforzi, che dà forma alla conoscenza. Ed è di nuovo l’uomo.

C’è, infatti, un dato insopprimibile nell’atto medico, una verità dalla quale la ricerca non sfugge: l’umanità del paziente.

Perché quello che vogliamo è lenire il nostro dolore, curare le nostre malattie, salvare quanti più esseri umani possibile. La scienza medica è quindi, inevitabilmente, scienza dell’uomo per l’uomo. Torniamo allora all’antico, Ippocrate, che enuncia una sintesi nella quale ancora oggi possiamo trovare ispirazione: «Se c’è amore per l’uomo, ci sarà anche amore per la scienza».

Nessuna delle due può prevaricare l’altra; conoscenza senza passione sarebbe algido protocollo, l’opposto pericoloso empirismo.

Lo dice con lucidità Bertrand Russel «Benché amore e conoscenza siano necessari, l’amore è, in certo senso, più fondamentale perché spinge l’intelligenza a scoprire sempre nuovi modi di giovare ai propri simili. … La medicina suffraga questa opinione: un bravo medico è più utile a un ammalato che non l’amico più devoto; e il progresso della scienza medica giova alla salute della comunità più che una ignorante filantropia. Tuttavia, anche al medico è necessaria la benevolenza, affinché tutti, e non soltanto i ricchi, possano approfittare delle scoperte scientifiche»

Le nostre Facoltà romane, il nostro Policlinico, esistono proprio per questo, per consentire che tutti possano approfittare delle scoperte scientifiche, esercitando – con passione e contro ogni avversità – la carità.

Grazie, a tutti coloro che, comprendendo l’essenzialità del compito che ci siamo dati, ci sostengono e ci incoraggiano con la loro vicinanza e il loro affetto.

Grazie a voi per essere qui e per la vostra attenzione.

 

Discorso di

Franco Anelli

Franco Anelli

Rettore Università Cattolica del Sacro Cuore

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