La campagna elettorale ha sempre un limite: l’uso di slogan rapidi, e pertanto superficiali, per ottenere il consenso immediato. Se questa è la caratteristica tipica del periodo pre-elettorale, oggi l’assenza di visione e approfondimento è ancora più grave, perché la città di Milano, dopo la pandemia, va incontro a importanti cambiamenti di cui occuparsi subito. Ne è convinto Alessandro Rosina, docente di Demografia e statistica dell’Università Cattolica.
Professor Rosina, cosa sta accadendo a Milano dal punto di vista sociale?
«Sta accadendo che la pandemia sta ulteriormente rafforzando una tendenza che era già in atto negli ultimi dieci anni. Viviamo in una città che da una parte è stata attrattiva per i giovani di tutta Italia per motivi di lavoro, ma al contempo non è riuscita a dare risposte complete per chi voleva un progetto di vita, non solo una professione».
Quindi una città meno ospitale di quanto si pensi?
«Intendiamoci, gli indicatori che riguardano l’occupazione sono buoni, soprattutto l’occupazione femminile, che è al 66,8% (dato riferito al 2018) contro la media italiana al di sotto del 50%. Ma qui la natalità è al di sotto delle aspettative, è in linea con la media italiana, e dopo la prima ondata di Covid stiamo assistendo ad un -12%
di nascite. Quindi qualcosa non funziona».
Cosa manca?
«Mancano servizi e informazioni facilmente reperibili. Non si è fatto molto per le politiche abitative per i giovani, per incrementare servizi come gli asili e attività di baby-sitting gestite dal pubblico, per dare la possibilità di conciliare, soprattutto per le donne, i tempi del lavoro e della famiglia. Se in una città grande, dove la carriera professionale è centrale, non si offrono servizi che supportano le famiglie, è chiaro che si rinuncia a formarla perché avere figli viene visto come un problema piuttosto che come una risorsa. A questo si aggiuge il fatto che spesso chi vive a Milano si è trasferito, e quindi non beneficia della rete familiare che in Italia fa praticamente da welfare».
Quale città dovremmo prendere come esempio?
«Dovremmo guardare ad altre capitali europee. Non parlo della Svezia, dove l’occupazione femminile è ben oltre l’80%. Guardiamo cosa ha fatto Berlino negli ultimi quindici anni, potremmo fare lo stesso, investendo appunto in politiche della conciliazione, con iniziative sia pubbliche che private, favorendo orari di lavoro e riducendo i costi dei servizi
per chi ha figli».
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