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Fake news come proiettili nella prima guerra informatica

18 novembre 2022

Fake news come proiettili nella prima guerra informatica

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Un recente studio elaborato da Microsoft ha messo in luce come il reiterarsi di attacchi informatici e attività di spionaggio della rete rendano quella tra Russia e Ucraina la prima guerra mondiale informatica del XXI secolo.

L’uso dei social in contesto bellico lo si è visto a partire (almeno) dalle primavere arabe.

Solo che prima la guerra era solo raccontata sui social, mentre oggi questi ultimi sono diventati armi potentissime per denigrare le parti o insabbiare i fatti, per condizionare le coscienze e l’opinione pubblica.

«Si tratta di una guerra parallela combattuta accanto a quella “vera”. Nella battaglia della disinformazione non fischiano proiettili ma fake news, e hanno un peso enorme, ben oltre la retorica di propaganda che da sempre accompagna le guerre».

La testimonianza è quella di Fausto Biloslavo, reporter de il Giornale sul fronte del Donbass, che nel corso della sua trentennale esperienza ha documentato le vicende belliche del Kurdistan iracheno, del Ruanda e dell’Afghanistan dove è anche stato in arresto per sette mesi.

A Brescia ha portato la sua testimonianza insieme alla collega Stefania Battistini, inviata del Tg1, durante il primo appuntamento di The Newsroom, il ciclo di incontri Dams sui temi dell’informazione (quest’anno incentrato sui temi Guerra e Pandemia).


«Due voci che usano principalmente, anche se non esclusivamente, linguaggi diversi: della carta stampa e vocato all’approfondimento lui, televisivo e forte dell’impatto delle immagini lei» li ha introdotti Gerolamo Fazzini, giornalista, scrittore e autore televisivo, docente di Media e Informazione al Dams.

A far da teatro alla guerra attuale è un contesto di generale disinformazione che complica la vita di tutti quanti. Dei giornalisti - chiamati a raccontare la verità dei fatti - e dei cittadini, destinatari delle notizie.

Eppure, se abbinati ai tradizionali strumenti di verifica del giornalismo (andare sul campo, vedere coi propri occhi e raccontare), Twitter e Facebook possono fare la differenza.

Lo racconta l'inviata Tg1, appena tornata dal fronte russo-ucraino. «Mentre cercavamo di varcare il confine senza riuscirci, scrollando i social ho notato la foto di quella che sembrava una fossa comune. Ho inserito le coordinate nell’applicazione Maps e siamo giunti in un piccolo villaggio alle porte di Kiev dove, grazie al racconto di una singora del posto, abbiamo scoperto che dei russi ubriachi avevano sparato a caso sui civili, uccidendo e ferendone alcuni (tra cui suo marito). La fossa era stata scavata dagli abitanti del posto per seppellire i morti e scongiurare il degenerare della situazione sanitaria». 

Il metodo è infatti quello di «raccontare le piccole storie di quotidianità che vediamo, che riflettono ed esemplificano la grande Storia in atto» spiega Biroslavo.

Per farlo è fondamentale la qualità delle fonti. E per trovare fonti attendibili e muoversi lungo le strade servono i cosiddetti fixer, spesso giornalisti o abitanti locali.

«Molto più che interpreti, ti aprono i contatti per arrivare al fronte e trovare le fonti primarie. I migliori sono quelli che riescono ad interpretare ciò che l’interlocutore non vuole dire in modo chiaro. Spesso mi hanno aiutato a non cadere nella trappola propagandistica» precisa Biloslavo.

Già, perché se buoni e cattivi non sono mai divisi in maniera salomonica, il lavoro del giornalista è anche «raccontare che il mondo non è bianco o nero, che i crimini di guerra li commettono anche i buoni». 

Da qui l’importanza riscontrata anche da Battistini: «serve coniugare la necessità di relazionarsi con le fonti ma anche verificare sempre. Per esperienza diretta, se il fixer non è attendibile o è psicologicamente provato, cosa non rara considerato il contesto, il rischio è di non arrivare alla notizia».

Un articolo di

Bianca Martinelli

Bianca Martinelli

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