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Il dono e la cura nelle esperienze di Lipeti e Lizzola

01 ottobre 2024

Il dono e la cura nelle esperienze di Lipeti e Lizzola

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Quelle del medico Francesca Lipeti, da 30 anni in Kenya a sostegno dei più deboli e che di recente ha ricevuto il premio Piacentina dell’anno, e di Ivo Lizzola, docente e studioso dei temi della marginalità, sono parole che si insinuano nelle pieghe recondite dei gesti di cura. È proprio il tema della cura al centro della Giornata del Dono dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Al campus piacentino dell’ateneo, davanti agli studenti della facoltà di Scienze della formazione e introdotti dalla professoressa Elisabetta Musi, Lipeti e Lizzola hanno intrecciato un dialogo in cui l’amore e la bellezza date e ricevute si sono toccate con la sofferenza delle persone di cui ci si prende cura.

Lipeti per trent’anni ha vissuto nei villaggi dei Masai, ora è invece a Ilbissil, villaggio vicino alla Tanzania, dove insieme all’associazione "L’albero di Yoshua" nel 2018 ha avviato la costruzione di un centro con la clinica e la scuola. Ilbissil, spiega, è una baraccopoli nata all’improvviso attorno al mercato delle vacche e delle pecore. «Quando nasce una baraccopoli - racconta Lipeti - le baracche si costruiscono l'una sull'altra, senza fognature né strade, ci sono una grande povertà e miseria. L’ambulatorio che abbiamo aperto è diventato nel tempo un punto di contatto con le miserie della gente. Abbiamo poi scelto di focalizzare l’attenzione sugli ultimi fra gli ultimi: i bimbi con disabilità».

Lizzola apre il suo intervento raccogliendo una frase di Lipeti: «"Piano piano le povertà si aprivano a noi". Una frase meravigliosa - sottolinea il professore - si identifica spesso il dono come il riempimento di una mancanza, ma è un’idea sbagliata. Le povertà non portano immediatamente a cercare una risposta, a volte creano barriere dure da abbattere. È difficile accostare donne e uomini diventati nessuno dentro di sé, persone che hanno rinunciato alla possibilità di credere ancora di potersi attendere dagli altri il bene. Riattivare l’attesa del bene è l’aspetto fondamentale, solo dopo arrivano le varie competenze mediche e di altro tipo. Stiamo parlando di un dono povero ma fondamentale e dobbiamo essere consapevoli che per qualcuno riuscirà ad attivarsi una possibilità di speranza, per altri no».

Di fronte all’interesse degli studenti, Lipeti ha raccontato la sua esperienza con i bambini disabili in Kenya. «Vivono una situazione di emarginazione e isolamento. A volte non viene dato loro neppure da mangiare, avvertono il rifiuto, che crea in loro una frattura». Da qui l'obiettivo di suturare laddove possibile la ferita. «La nostra casa famiglia si prende cura di 12 bambini - dice il medico - non tanti, ma un numero adeguato per potere prestare il sostegno necessario a tutti». Nel tempo le esigenze sono diventate altre. «Avevamo il desiderio che questi bimbi potessero andare a scuola» continua Lipeti, ma i “no” ricevuti da parte degli istituti scolastici sono stati tanti, troppi. «Molti sono stati i rifiuti - dice - dopo essere stati respinti abbiamo aperto noi l’asilo, per questo abbiamo comprato un’altra piccola striscia di terra disponibile nel villaggio. Oggi 60 bambini frequentano la nostra scuola, dove chi è normoabile interagisce, gioca e trascorre il tempo con chi non lo è».

Il dono non è un gesto semplice. I tanti rifiuti ricevuti da Lipeti lo dimostrano. Lizzola va oltre. «C’è una dimensione tragica nel dono, la dimensione del fallimento, che va guardato con misericordia per andare avanti». Nel contesto culturale dove sono nati, i bambini disabili vengono considerati maledetti e contagiosi. Un aspetto, questo, che innesca una riflessione di Lizzola. «Durante il mio lavoro, quando porto i ragazzi in carcere, i genitori non sono entusiasti quando vengono informati che i loro figli svolgeranno otto incontri con i detenuti per fare riflessioni insieme a loro. Non sono tranquilli. Qualche studente avvertendo la tensione in famiglia si è tirato fuori, c’è una questione di “maledettismo” anche fra noi. Con certe storie di vita marginale delle città e disabilità adulte non si entra volentieri in contatto».

Un articolo di

Filippo Lezoli

Filippo Lezoli

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