I migranti che giungono nei nostri territori possono contribuire ai processi di trasformazione sociale? La loro integrazione può essere utile a tal fine? Quali le azioni a supporto di tali fattori di cambiamento?
A queste domande ha inteso rispondere il seminario svoltosi in aula Maria Immacolata il 26 ottobre, a cura del Dipartimento di Psicologia e dell’Unità di ricerca psicologica, culture e migrazioni, illustrando l’esito di ricerche compiute e valutandone l’impatto in prospettiva futura.
Sono emersi dati non scontati, come ad esempio quello dell’importanza del ruolo della donna migrante nei processi di cambiamento, evidenziato nella sua relazione dalla professoressa Cristina Giuliani, docente di Psicologia Sociale presso la Facoltà di Scienze linguistiche, con particolare riferimento alle migranti Neet, donne che non studiano e non lavorano vivono in condizione di vulnerabilità e possono cadere in contesti di alienazione, isolamento e depressione. «Sfidano modelli culturali e contribuiscono al cambiamento sociale. Il prezzo che pagano è considerare la loro vita un fallimento dato che passano da un periodo pre-migratorio ricco di relazioni ad un periodo povero da questo punto di vista che va a sommarsi con le ambivalenze dei matrimoni combinati e con il legame che viene meno con la famiglia di origine, senza contare che a loro è delegato un impegnativo compito di cura della famiglia vissuto come un mandato al quale essere e fedeli e che è il loro aspetto identitario».
Dopo le donne, i giovani. Una ricerca è stata loro dedicata utilizzando un metodo innovativo e fruttuoso, il Photovoice Mimy, illustrato dalla professoressa Daniela Marzana, docente di Psicologia sociale presso la Facoltà di Psicologia, che ha coinvolto giovani tra i 18 e i 29 anni, all’interno di un progetto forte di idee per lanciare attività partecipative con i migranti come agenti di cambiamento. In pratica Photovoice è uno strumento che utilizza fotografie per dare voce a chi le produce. Nell’epoca dei social la foto è un mezzo diretto e di facile utilizzo e consente di fare vedere all’opinione pubblica quanto accade e di smuovere le coscienze, promuovendo un dialogo critico su questioni importanti per la comunità attraverso discussioni di gruppo stimolate dalle immagini prodotte. «Il linguaggio fotografico è universale, va oltre le culture e dà visibilità a linguaggi universali come musica arte, cibo». Emblematico e anche commovente, nel racconto della professoressa, la foto di uno studente africano che aveva ripreso un albero raro in un parco e che apparentemente sembrava fuori contesto rispetto al tema indicato della nostalgia, ma poi è risultato essere un albero tipico della zona d’origine di questo studente, il quale, quando aveva nostalgia della sua terra, attraversava tutta la città per andare in quel parco e ammirare quell’albero.
Dalle emozioni alla solidarietà e alla generatività sociale. È stato questo il tema di Sara Martinez Damia, assegnista di ricerca della Facoltà di Psicologia, per cui la sofferenza che la migrazione porta con sé va combattuta con la strategia della partecipazione, con il coinvolgimento delle associazioni di migranti. «I migranti sono percepiti come cittadini di "Serie B" e vivono una discriminazione istituzionale. Come promuovere, allora, il benessere e modellare il futuro della comunità? C’è il volontariato nell’ambito delle associazioni che si occupano di migranti dove gli stessi migranti forniscono servizi in maniera attiva. Tali associazioni vanno conosciute, sostenute, va data loro visibilità, lavorando sul senso di comunità che è il fulcro che permette di affrontare meglio contesti poco accoglienti».
Sul contesto lavorativo quale fattore di integrazione è intervenuto il professor Diego Boerchi, docente di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione presso la Facoltà di Scienze della formazione: «I migranti incontrano difficoltà in quanto, pur avendo elevate qualifiche professionali e adeguati titoli di studio, accettano lavori sottoqualificati per l’urgenza della sopravvivenza, per mantenere la famiglia rimasta nei luoghi di origine e per pagare i debiti contratti per il viaggio. Dalla ricerca è emerso che gli operatori dei centri per l’orientamento non aiutano a fare una scelta appropriata ma si sostituiscono a loro».
Tale frustrazione nell’esercitare lavori di manovalanza a fronte di alta professionalità con ricadute per il benessere di vita e la mancanza di attenzione verso i loro interessi reali è stata richiamata da Marta Rivolta, project manager nell’Associazione Francesco Realmonte onlus, che ha auspicato l’esistenza nelle aziende di un mentor che agevoli i migranti per la conoscenza della lingua e faciliti processi di condivisione delle regole aziendali magari con un manuale di benvenuto multilingue. «Per essere agenti di cambiamento occorre la conoscenza della lingua e il riconoscimento dell’impegno delle cooperative».
Si parla di emigrazioni e di culture, volutamente al plurale, in quanto «il plurale introduce una dimensione dialogica che genera proattività - ha affermato a tal proposito Antonella Marchetti, direttore del Dipartimento di Psicologia – e la proattività rende l’idea di trasformazione, e in un sistema complesso traduce, agisce, porta potenziali trasformazioni non sempre prevedibili a priori e che occorre analizzare».
A queste parole hanno fatto eco quelle di Giovanni Giulio Valtolina, coordinatore Unità di Ricerca Psicologia, Culture, Migrazioni: «Essere agenti di cambiamento non significa che tutto funzioni perfettamente, occorre considerare che le persone hanno delle fragilità, bisogna avere attenzione positiva alle risorse su cui far leva. Il cambiamento è un processo che avviene anche in maniera involontaria, colui che lo promuove potrebbe non essere cosciente di questi processi che innesca ma che fungono da catalizzatori».
Ai fini del cambiamento e delle trasformazioni sociali diventa rilevante il ruolo di educatori e assistenti sociali che supportino ed orientino le persone migranti.
Foto di Julie Ricard su Unsplash