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"Insegnare, questo era il desiderio più grande"

03 maggio 2021

"Insegnare, questo era il desiderio più grande"

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Erano gli anni dopo la guerra del 1940-1945. Da poco avevo concluso gli esami di maturità della scuola magistrale e l’animo era alle stelle, libera in una Milano martoriata dai bombardamenti, ma con il cuore che cantava la rinascita. Avevo la gioia di vivere e gli ostacoli non si contavano, ma potevo pensare al mio futuro: “posso insegnare”, questo era il desiderio più grande.

Cercavo come fare perché le difficoltà erano tante, ma ad un certo punto mi si aprì uno spiraglio: continuare a studiare e iscrivermi all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ma come? Non era facile. Vivevo tra casa e parrocchia perché lì era il luogo dove avevo trovato vita. Mi venne incontro, un giorno, un sacerdote della parrocchia, don Giacomo Marelli: gli dissi qual era il mio sogno, ma anche che i mezzi economici erano pochi e le spese non indifferenti. “Silvana ci penso io! – esclamò subito - chiederò una borsa di studio al signor Rossi incaricato per i giovani in difficoltà. Se non ottengo, mi rivolgo altrove”.

Dopo poco tempo ricevo il consenso. Mi assale così una voglia di correre; comincio a preparare il necessario e con le gambe che tremano, ma il cuore esultante, passo all’attacco e sotto l’arco dell’Università Cattolica, come fossero le forche caudine, entro in questo mondo meraviglioso.

La prima cosa da fare, una volta varcata la soglia dell’Università Cattolica, era un saluto nella cappella di Gesù Eucaristico che mi ricordava il sapore di essere cristiana cattolica.

Mi sono iscritta come matricola nell’anno 1951 al primo anno di lettere. Solo Lui può capire il mio cuore in quei momenti, camminavo per il chiostro e lo avvertivo ineffabile. Dire che cos’era per me la frenesia, a parole, è difficile: un misto di sensazioni ed emozioni che non puoi dire a nessuno, che provi nel profondo del tuo animo e che ti fa gioire.

Iniziai l’anno accademico (1951-1952). Per tutti gli studenti che erano iscritti all’Università l’inizio aveva un carattere religioso. Si iniziava in cappella e si proseguiva in Aula Magna con la presenza del Magnifico Rettore, padre Agostino Gemelli, e del corpo docenti in toga con grande parata. Gli studenti prendevano posto nei seggi assegnati. Tutto era un grande trambusto. Si aspettava la parola del Magnifico Rettore. Nell’aula risuonava la sua parola ferma, decisa, ricca di entusiasmo per l’anno nuovo. Era un passaggio ricco di emozioni e di promesse: tutti volevamo il bene migliore, tutti aspiravamo alle cose più belle, ma soprattutto Padre Gemelli costruiva e cercava il fiorire della sua Università.

Dato avvio all’anno accademico, si correva alla ricerca della propria aula per iniziare il corso di studi. La mia prima lezione fu con il professor Mons. Riposati che, amante del latino, iniziava un corso su Virgilio e sulle Egogle “Titire, tu patulae recumbens sub tecmine fagi”. Era questo l’inizio del suo corso accademico e la sua espressione diceva quanto amore si sprigionava da lui. Per dieci lezioni ha ripetuto questo dittico ed era per noi una domanda inquietante “Ma cosa ci chiederà agli esami?” Per me era come vivere nella gioia, ero felice per quanto si stava avverando e il mio era un canto di ringraziamento “Magnificat anima mea Dominum”. Incominciava per me una nuova vita e tutto era bello, anche se intorno tutto era cadente e mal messo: c’era però un desiderio di rinascita in tutte noi studenti che commuoveva, gli occhi ci brillavano nel salutarci: ce la faremo, Milano rinascerà!

Nella nuova aula che avevo trovato lungo il corridoio, un nuovo professore ci aspettava. Tutto diverso, l’argomento era grammatica e letteratura latina con il prof. Anfossi. Mi accorsi subito che l’argomento sarebbe stato più ostico, la voce del professore era più calda e sicura.

Così si svolgeva pian piano la mia giornata: le materie mi solleticavano e mi richiedevano attenzione e impegno. Intanto i giorni passavano lenti e indaffarati.

Dovevo studiare bene la strada per arrivare puntuale all’Università per l’orario delle lezioni e il tempo diventava sempre più freddo. Bisognava coprirsi: utilizzavamo cappotti di stoffa che si abbellivano con colli di pelliccia. Sembrava scaldassero, ma non era così. Anche se il freddo pungeva, accelerando il passo sembrava di sentirlo meno, i mezzi di trasporti non erano belli e comodi come oggi. Partivo presto da casa per arrivare alla Messa in cappella alle ore 8.00. Mi fermavo al piano terra a riporre il cappotto e indossavo la “vestaglia”. Non ho spiegato infatti che le giovani dovevano indossare una vestaglia blu, secondo la volontà del Magnifico Rettore, per tutto il tempo richiesto durante le lezioni. Non si poteva trasgredire. E fu così che una mattina, alquanto gelida, con una compagna stavo attraversando il chiostro, con un freddo pungente. Per evitarlo, avevamo indossato il cappotto sopra la vestaglia. Ed ecco padre Gemelli: spuntò improvvisamente sul suo carrozzino che guidava con estrema velocità; ci vide e ci chiamò vicino a lui “signorine, - disse con tono di rimprovero - non avete la vestaglia!”. Impaurite, ma anche tranquille, aprimmo il cappotto ed esclamammo “Eccola!”. Padre Gemelli ci guardò con un sorriso benevolo e ci congedò con un saluto cordiale. Noi rimanemmo contente e soddisfatte: avevamo esaudito il suo desiderio e l’avevamo incontrato in un modo un po’ particolare. Le compagne che si erano affacciate, si aspettavano di assistere ad un richiamo: ci dissero che ci era andata bene perché eravamo matricole e potevamo incorrere in qualche pasticcio. Da quel giorno la vestaglia non l’ho più lasciata, freddo o caldo era sempre con me.

La presenza di Gesù Eucarestia era per me un punto vitale per la mia vita: tutto aveva principio da Lui e mi dava sostegno lungo la giornata. Padre Gemelli aveva voluto che ogni facoltà avesse un punto di riferimento in una guida spirituale, una figura che accompagnasse il cammino di noi giovani studenti. Come guida spirituale, noi di lettere, avevamo Padre Carlo Varisco (da Milano), un cappuccino che aveva sede nel convento dei Padri Cappuccini in viale Premuda. La sua figura mi ricordava padre Cristoforo del Manzoni e mi dava sicurezza – era anche confidente di padre Gemelli e così ci sentivamo doppiamente in sicurezza.

Padre Gemelli non era molto avvicinabile, in particolare da noi giovani studentesse.

Padre Carlo ci sosteneva lungo il percorso degli esami con un conforto veramente umano e spirituale. Agli esami i docenti erano severi ed esigenti: era davvero faticoso affrontarli, ma la volontà era ferma e lo studio impegnativo. Padre Carlo non ci mollava, prima e dopo gli esami: la sua parola era di sprone quando la preparazione non era adeguata alle richieste. Il “Titire tu patulae“ si era rivelato un pozzo di sapienza che faceva tremare le nostre aspettative.

Padre Carlo era il nostro confidente, quando era di buon umore ci raccontava qualche episodio della vita di padre Gemelli e noi ci sentivamo orgogliose di ascoltare. Un giorno ci raccontò che padre Gemelli, amante della montagna, prediligeva i rododendri tanto che ad una festa estiva padre Carlo gli aveva fatto confezionare un fascio di rododendri nel suo studio che avevano fatto gioire padre Gemelli.

Il padre era burbero, non si lasciava mai adescare dalle nostre domande, ma padre Carlo riusciva ad accontentarci nel raccontare la gioia di padre Gemelli nel ritrovarsi tra i giovani sui monti o al Passo della Mendola.

Amava in modo particolare i giovani: il modo in cui si fermava a parlare in mezzo a loro diceva la sua vicinanza ai giovani: li ascoltava sempre con grande interesse.

A distanza di anni, comprendo la sua grandezza d’animo e la sua sapienza; il suo amore per l’Università era davvero una potenza che gli ha permesso di superare impedimenti e difficoltà.

Tanti sono gli avvenimenti che potrei raccontare perché gli anni della vita universitaria sono stati diversi, ma in me resta salda la gioia e la riconoscenza di essere stata formata in una Università che ha dato tanto dal punto di vista culturale e spirituale a me, a mio marito e poi successivamente a mia figlia Sara.

Il mio augurio è ora per tutti i giovani che oggi varcano la soglia dell’Università: sia per loro il luogo dove crescere come uomini e donne, ancorati alla fede e alla certezza che solo nell’Amore si può dare un senso pieno alla propria vita. 

Una testimonianza di

Silvana Colla Ghiglioni

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